fuori i coglioni!

l’ultima volta che sono stato a san siro (non capita spesso) il milan ha perso 1-3 contro la fiorentina, l’allenatore era giampaolo e la curva ha ammainato le bandiere e abbandonato lo stadio verso la metà del secondo tempo, al grido di “tirate fuori i coglioni”. una scena a dir poco agghiacciante. un anno dopo il milan ha tirato fuori i coglioni.

ma non è di questo che volevo parlare, quanto di quel coro: “tirate fuori i coglioni” — bellissimo e tremendo, umiliante come poche scene alle quali mi sia mai capitato di assistere. una curva intera che ti sta sbraitando, scandendo ogni sillaba, che sei una mezza pippa è una storia che ti porterai dietro per tutta la vita. assistervi è stato epocale e ancora oggi ricordo distintamente la sensazione di imbarazzo che provai — come quando vedi qualcosa che non dovresti vedere, inconfondibilmente fuori posto. ma, a quanto pare, poi è servito (a loro).

spesso mi capita di ripensare a quel coro (decontestualizzato dalla partita e dal milan) e a come, di fatto, oggi abbiamo raggiunto un’insostenibile allergia alla mediocrità, ambendo sempre a riferimenti più alti. mi spiego. rimanendo nella metafora calcistica, ci sono anni buoni e anni cattivi - ma la fede calcistica, per tradizione e folklore, ha sempre superato la qualità del rendimento della propria squadra del cuore, rimanendo - in mancanza di coppe - un’ottima base per farsi prendere per il culo al bar dagli amici o, al limite, ad avere di che lamentarsi la domenica sera (vero sport nazionale).

ora invece bastano un paio di mesi di insoddisfazione ad innescare una roulette di allenatori che si alternano uno via l’altro fin quando non si imbroccano almeno tre partite di fila in attivo; per non parlare del calcio mercato che si è trasformato in un’asta di cattivo gusto a chi ce l’ha più lungo. insomma, sembra non esserci più pazienza, coltivazione nel tempo, una cultura della perseveranza che ci permetta di non stufarci dopo un nanosecondo qualora qualcosa non ci aggradi sin dal primo istante. complice forse quel celebre telecomando di cui parlava fellini (l’”apparecchietto”, un “plotone d’esecuzione”), che ci ha incoronati tiranni in grado di togliere la parola ad ogni momento a chiunque, qualsiasi sia il discorso — un telecomando che oggi è stato addirittura sostituito da un rapido gesto del pollice, ratto e spietato quanto quello di un cesare.

questa continua, perenne, instancabile impazienza che abbiamo sviluppato, oggi si riflette in ogni suo aspetto nella nostra identità digitale, ma - e questa è la questione - quanto mai influirà anche su tutto il resto? quanto influirà sulla nostra capacità di ascoltare, veramente, o sulla qualità stessa di ciò che richiediamo o di ciò che ci viene fornito, da ultimare in tempi sempre più stretti, insensatamente stretti, perché un prodotto possa essere ben ponderato e ben realizzato. pensiamo alle serie. il consumo bulimico che operiamo delle narrazioni, obbliga le emittenti a produrre sequel sempre più a stretto giro e quando poi il pubblico si affeziona al prodotto — siccome una stagione di qualsiasi serie non si può scrivere-realizzare-postprodurre-distribuire in un mese — allora la netflix di turno si trova a dover realizzare decine di progetti parallelamente, tutti uguali, tutti scontati (ben recitati, spesso, per carità! e ben girati, certo), tutti ambientati in epoche e aree geografiche diverse, ma con la stessa identica trama, gli stessi identici personaggi, ancora e ancora e ancora.

e poi la pandemia. l’insofferenza che i bulimici consumatori stanno sviluppando verso la pandemia è strettamente correlata a questa impazienza atavica che è impazienza commerciale; ed è per questo che la preoccupazione più profonda che ci attanaglia in queste settimane non è la nostra salute, o quella della nostra comunità, o i 700 morti che il covid semina quotidianamente nella sola italia - ma è una preoccupazione intrinsecamente commerciale, è una cinica impazienza di consumo — ciò che voglio io, quando dico io, nelle modalità in cui dico io, perché io ho il telecomando e io decido quando questo programma, o la realtà stessa, mi hanno annoiato.

non lo sentite questo coro? “fuori i coglioni!” — vogliamo andare a sciare! “fuori i coglioni!” — vogliamo fare l’aperitivo! “fuori i coglioni!” — vogliamo i regali e il cenone! “fuori i coglioni!” “fuori i coglioni!” “fuori i coglioni!”

impotenza. ecco il grande cortocircuito: essere passati da una realtà di capricciosa impazienza a una realtà di nuda, ineluttabile impotenza.

torneremo mai a gonfiarci i polmoni di cori che incoraggino la nostra squadra di perdenti? torneremo ad accontentarci del finale di un film, senza desiderare sapere di più e ancora di più di quello che il regista (autore!) ha scelto di condividere con noi? torneremo ad ascoltare le opinioni differenti dalle nostre senza soltanto aspettare il nostro turno per asserire il nostro sordo pensiero? torneremo a curarci delle necessità di chi ci circonda prima che dei nostri bisogni di consumare il superfluo in un circolo senza fine?

“fuori i coglioni!” “fuori i coglioni!” “fuori i coglioni!”

parole: 821

Indietro
Indietro

quella là

Avanti
Avanti

il giorno di servizio