après

è uscito la scorsa settimana il remaster di après, album del 2012 di iggy pop, composto prevalentemente da cover di canzoni della tradizione degli chansonnier d’oltralpe.

in genere, che mi sia dato sapere, ci sono due tipi di cover: quelle che effettivamente aggiungono un quid artistico in più - creando nuovo valore all’opera ricalcata - e le cover che vengono apprezzate per ciò che rappresentano, più che per l’apporto di carattere tecnico alla caratura musicale originale. après, non fosse altro che per l’interessantissimo assortimento dei titoli, rientra, credo, nella seconda categoria, servendo una buona dose di fantasia per immaginare pop, con i suoi tatuaggi, la sua pelle flaccida da eterno macilento, i suoi jeans a vita bassa, i suoi lunghi capelli radi, dedicarsi alle rivisitazioni di les passantes, syracuse e la javanaise. mi permetto di dire che l’album non brilla per aggiunta di valore ai classici della canzone francese, non soltanto per via del mio inguaribile razzismo verso gli americani che biascicano le lingue romanze, ma anche e soprattutto perché dal punto di vista musicale, strumentale, degli arrangiamenti, aprèsnon aggiunge un’acca se non l’interpretazione del principe del groove, lasciando a bocca asciutta chi - come me - si sarebbe aspettato delle reinterpretazioni in stile ramones (l’etichetta virginha addotto la medesima obiezione respingendo il progetto in fase di pitch).

tuttavia se una cover a qualcosa serve, è per mettere sotto nuova luce ciò che già si conosceva e che, consumato dall’abuso, ormai il nostro orecchio dava per scontato; e per quanto mi riguarda, l’album di iggy pop in questo riesce, seppure non nelle rivisitazioni dei pezzi francesi, in quelli di lingua inglese.

oltre l’incantevole interpretazione di michelle, infatti, l’ascolto di après mi ha fatto riapprezzare la pietra miliare everybody’s talkin’, originariamente interpretata da fred neil ma resa poi celebre da harry nilsson (nella felice versione che venne proposta in un uomo da marciapiede), le cui parole come spesso accade, dopo troppi ascolti, si annacquano in un ritornello atono.

due immagini mi hanno infatti colpito, di questo testo cantato mille e mille volte e mai veramente ascoltato. la prima è: “going where the weather suits my clothes”, meravigliosa nella sua essenzialità: vado dove il tempo si addice ai miei vestiti, ovvero: io sono me stesso, non cambio per niente al mondo, non seguo le stagioni, ma sono loro a doversi adattare a me (scommetto che si tratta del passaggio che ha convinto iggy pop a inserire il brano in scaletta); una perfetta rappresentazione della weltanschauung statunitense, sempre portata a piegare la natura a seconda dei propri capricci e mai viceversa, come è caratteristico dei rinascimentali giardini all’italiana. e poi quel “skippin’ over the ocean like a stone”: saltando sull’oceano come una pietra; fluttuando cioè, sfiorando l’infinito soltanto epidermicamente, senza mai toccare o farsi toccare dall’abisso, ma riguadagnando salvezza in un continuo movimento gioioso, senza pensare all’avvenire quando, inesorabilmente, l’inerzia mi porterà a venire risucchiato dall’oceano e quei pochi saltelli saranno valsi un’eternità di buio nelle profondità del mondo. due immagini potentissime e così caratteristiche di quel motivetto trito cui tutti siamo ormai assuefatti, riemerso - per restare nella metafora marina -  grazie alla cover di iggy pop, con linfa nuova (anche se, ripeto, con scarsissima fantasia).

infine mi rendo conto della contraddittorietà del mio commento, ma tant’è: l’ascolto di questo album non mi ha certo entusiasmato dal punto di vista musicale, ma mi ha dato da riflettere, facendomi riapprezzare vecchie glorie impolverate, rendendo nuova giustizia alla bellezza di versi incartapecoriti.

e se non fosse dicembre, se non piovesse, se fuori non ci fossero sei gradi, se non abitassi a milano, mi verrebbe voglia di farmi un tuffo e di lasciarmi galleggiare pancia all’aria, canticchiando everybody’s talkin’ con le orecchie sommerse; così, metà fuori, metà sotto, fluttuando sopra l’abisso incombente.

parole: 629

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