questa estate non deve fare schifo

teoria e pratica dello Strandkorb

Dopo l’11 settembre 2001 sembrava che non avremmo mai più preso un volo in tranquillità. Nei primi mesi del 2002 si supponeva che su ogni aereo di linea avremmo viaggiato (ad libitum) con due agenti in borghese, seduti nelle ultime file, addestrati a sventare un attacco terroristico.

Questo, nello specifico, non è accaduto.

È accaduto invece – per quanto al tempo sembrasse folle, o quantomeno drastico – che è cambiato il nostro modo di volare (anche se oggi nemmeno più ci facciamo caso).

Sappiamo che non possiamo superare i controlli di sicurezza con dei liquidi a carico. E non lo facciamo.

Sappiamo che non possiamo portare a bordo le forbicine per le unghie.

E non lo facciamo.

Sappiamo che ai controlli dovremo estrarre il portatile, che forse ci chiederanno di toglierci le scarpe, che magari ci faranno il tampone antidroga, che ci perquisiranno.

E noi li assecondiamo. Perché semplicemente è così. Non è né bello né brutto, è solamente la nuova normalità post-11 settembre.

È cambiato il nostro modo di volare? Certamente. È cambiato il nostro modo di viaggiare? In parte.

Ma non è cambiato il viaggio. Questo no.

Oggi, a cadavere tiepido (letteralmente), il più grande problema degli italiani sembra essere: “Come trascorreremo la nostra estate?”, piuttosto che “Come andremo in spiaggia?”

Un tormento che i giornali amplificano di giorno in giorno con maggiore insistenza.

Per prima è giunta l’ipotesi del plexiglas: ogni ombrellone sarebbe stato imprigionato da quattro muri trasparenti. Figuriamoci. Meglio il terrazzo in città.

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Poi sono arrivate le cupole di bambù dello studio OBICUA, che – per carità – son belle e sembrano una buona idea, ma andrebbero costruite e commercializzate e non si vede come possa risultare pensabile realizzarle sui maggiori litorali italiani nell’arco delle prossime – poche – settimane.

Infine (ovviamente in mezzo sono state fatte altre ottomila proposte che non prendiamo in considerazione per brevità) il progetto spezzino del gazebo sostenibile (pannelli frangisole in legno e tende in fibra naturale), progettato da Cam Urban Studio con l’architetto Parentini. Che tuttavia costa 300€ a unità, una spesa che difficilmente lo stabilimento – e tantomeno le Regioni coinvolte – potranno permettersi di sostenere. Poi, chissà; ma ad occhio…

Intanto col nuovo decreto arrivano anche le prime certezze, contribuendo – per fortuna o purtroppo – a limitare i voli pindarici e la überfantasia di studi grafici e di architettura.

Tra le altre misure* (come ad esempio il divieto di attività ludico-sportive), sono stati concordati con le Regioni i seguenti provvedimenti (annullando di fatto quanto annunciato precedentemente dall’Inail, che era stato decisamente male accolto dalle associazioni di settore):

  • è prevista un’area minima di 10 metri quadri per ombrellone (per informazioni o approfondimenti sulla capacità di un metro quadro, non leggete i quotidiani), laddove le singole Regioni avranno la facoltà di restringere le misure (come per esempio ha già fatto l’Emilia-Romagna, che ha previsto un distanziamento di 12 metri);

  • tra le attrezzature da spiaggia (lettini, sedie a sdraio), quando non posizionate nel posto ombrellone, deve essere garantita una distanza di almeno 1,5 metri.

* Per ulteriore approfondimento, rimandiamo al portale per glia addetti ai lavori: mondobalneare.com.

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Ora, è nobile (e umano) che la nostra mente viaggi lontano, che spazi in territori fantascientifici: è nella nostra natura e certamente è interessante vedere come la comunità creativa si lanci alla ricerca di scenari imprestati alla letteratura di genere; eppure.

Eppure, serve? Nel senso: davvero serve? Per una volta forse sarebbe il caso di lasciare la fantascienza da parte, di pensare in maniera un po’ meno creativa e un pelo più pragmatica, perché il rischio che questa estate faccia veramente schifo è oltremodo tangibile.

Perché al mare – in teoria, salvo bizzarri casi limite – ci si va per rilassarsi, per ricercare una distanza dalle ansie della città e del lavoro, per intrufolarsi in una dimensione che rappresenti un unicum nel calendario dell’anno e non, come invece sembrerebbe profilarsi all’orizzonte, una lotta per la serenità tirata col righello, in cui all’uscita delle docce ci venga misurata la febbre.

Perché quello che ci aspettiamo dalle nostre vacanze al mare, i tedeschi lo hanno magnificamente condensato in una sola parola; un estremo sunto dei termini con i quali noi indichiamo – più prolissamente – pace, relax, tranquillità, comodità, piacere e che al contempo riesce anche a trasmettere un vago senso di tepore; e questa parola è Gemütlichkeit.

 

Gemütlichkeit

[ɡəˈmyːtlɪçkaɪt]

   1 (Behaglichkeit) comodità f., agio m.

   2 (Zwanglosigkeit) intimità f.

   3 (Leutseligkeit) affabilità f., cordialità f., bonomia f.*

Gemütlichkeit deriva da gemütlich, l’aggettivo di Gemüt, che significa “cuore, mente, temperamento, sentimento, umore”. L’attuale significato della parola deriva dal suo uso nel periodo artistico Biedermeier. Dalla seconda metà del XIX secolo fu associato a un insieme di tratti supposti unici della cultura tedesca. **

* dizionario tedesco Sansoni

** Wikipedia

Non è dunque solo un po’ di Gemütlichkeit che desideriamo, dopo tre mesi rinchiusi nelle nostre case, dopo cinque mesi (ad agosto) di ansie, di preoccupazioni, di cattive notizie, martoriati da questo 2020 che (a differenza da quanto predetto dall’ottimo Paolo Fox) sembra non avere intenzione di lasciarci in pace nemmeno per un attimo?

Ecco. Allora quando si parla di Gemütlichkeit, gli amici tedeschi presentano un corrispettivo marittimo che se – sforzandoci per un solo momento di desistere dall’ironizzare con alterigia sulla miseria del loro panorama comparato al nostro – decidessimo di prendere in analisi seriamente, potrebbe fornire una fortunata soluzione alla nostra errante condizione.

Chi abbia viaggiato almeno una volta la parte settentrionale della Germania e visitato le spiagge del Mare del Nord – a ovest – oppure del Mar Baltico – a est – non può non aver notato, sporadiche, delle ceste (non mi vengono in mente altri termini per definirle) sparpagliate – in genere, disordinatamente – sulla spiaggia, che i tedeschi chiamano “Strandkorb”, ovvero – appunto – “Cesta da Spiaggia”.

Queste:

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Comode cuccette di vimini, gli Strandkörbe sono sia uno degli emblemi della Germania del nord (in particolare della sua componente orientale, l’ex Repubblica Democratica socialista), come anche di quella stessa Gemütlichkeit a loro tanto cara nei momenti di ritiro dal tran tran della città.

L’intimità che lo Strandkorb concede è del tutto estranea alla nostra concezione di vacanza, spesso finalizzata – è cultura nostrana – all’esibizione di noi stessi, dei nostri corpi (non sempre una delizia, va detto), dei nostri costumi da bagno e – tristemente – dei nostri tatuaggi (che in spiaggia finalmente godono di quella libertà loro negata per il resto dell’anno).

Quell’hashtag tanto in voga nei mesi di marzo e di aprile che recitava “#DistantiMaUniti” trova insolito riscontro nella Cesta, in quanto quelli che il Presidente definirebbe “affetti stabili” o “congiunti” scoprono una rinnovata vicinanza (non comune sotto l’ombrellone), pur potendosi isolare dagli altri avventori della spiaggia, racchiudendosi ciascun nucleo in un proprio guscio, in una dimensione miniaturizzata del proprio spazio domestico.

Flessibile e comodo, lo Strandkorb offre la possibilità di proteggersi a 360° dalla sabbia e di ripararsi dal sole, essendo inoltre munito di un tendalino di stoffa estraibile sul fronte. Al contempo permette di assecondare la direzione dei raggi, grazie alla reclinabilità della sua componente superiore.

* Uno Strandkorb raggiunge un’altezza di circa 160 cm, una larghezza di 120 cm e pesa normalmente tra i 70 e gli 80 kg.        La base è solitamente realizzata in pino o abete.

Certamente più accettabile su un piano estetico delle pareti di plexiglas (non avete pensato subito alla cella di Hannibal Lecter?), più pratico di una cupola di bambù e decisamente più economico dei gazebi di Parentini (nondimeno ugualmente sostenibile), lo Strandkorb sembrerebbe davvero la soluzione ideale per ritrovare la nostra Gemütlichkeit sulla Riviera e sulla Versilia post-pandemiche, senza costringere i proprietari degli stabilimenti a sacrificare metri quadrati preziosi.

Questo oggetto di cui i tedeschi vanno immensamente fieri (a ben vedere) ha origini straordinariamente lontane (basti pensare che il suo antesignano, la sedia coperta, viene attestato già a partire dal XVI secolo e la ritroviamo in diverse opere d’arte di rilievo del tempo) e ricopre spesso un elemento di primaria importanza per le culture locali.

Jacob Jordaens, Wie die Alten sungen, so zwitschern auch die Jungen (1638) Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, Antwerp

Jacob Jordaens, Wie die Alten sungen, so zwitschern auch die Jungen (1638) Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, Antwerp

Lo Strandkorb viene citato, tra gli altri, anche da Thomas Mann nei Buddenbooks e innumerevoli opere letterarie sono state dedicate a questo peculiare oggetto, in particolare gialli e thriller – inspiegabilmente – ma anche libri per bambini e raccolte di racconti.

La Cesta germanica vanta oggi inoltre una community affezionatissima nell’ambito del DIY (il fai-da-te), che aggiorna con regolarità i metodi migliori per realizzare la propria cesta in semplici passi e con budget irrisori.

Ai proprietari di stabilimenti balneari interessati allo Strandkorb segnalo un intero portale dedicato al cesto fai-da-te, opportunamente nominato Strandkorb-abc, oltre alle decine di cani sciolti del web (qui un esempio di come realizzare una cesta con 8 pallet) che illustrano come costruire il proprio Korb home-made.

Iconico lo Strandkorb lo è diventato, come accennavo precedentemente, nella DDR socialista (laddove il primo produttore ufficiale, Bartelmann, iniziò la sua attività nel 1903 a Rostock, in quello che sarebbe poi diventato territorio dell’Est) dove la cultura del corpo libero (detta FKK: “Freie Körper Kultur”) era strettamente legata a un immaginario che comprendeva la Cesta da Spiaggia: i corpi nudi per rappresentare l’uguaglianza universale, accolti in un guscio – uguale per tutti, a sua volta – che potesse proteggerli dal tempo incerto che batteva e tutt’ora batte le coste tedesche anche durante i mesi più caldi.

Insomma: economico, pratico, sostenibile, gradevole alla vista, sicuro e a prova di contagio, lo Strandkorb sembra davvero essere la soluzione perfetta per rispondere con efficacia alle misure imposte dal governo e godersi questa strana, stranissima estate con un poco di Gemütlichkeit (o come preferite chiamarla).

“Nel maggio del 2020 sembrava che avremmo trascorso l’estate in una scatola rovente di vetro”, diremo un giorno. Perché sì, cambierà il modo in cui andremo in spiaggia – come è cambiato il modo in cui voliamo – ma non cambierà l’estate.

Davvero: questa estate non deve necessariamente fare schifo.

Bastano otto pallet, meno fantasia e più voglia di Gemütlichkeit.

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