lina orsolina e i miei vent’anni

cercherò di essere breve, che a scrivere di lina orsolina si potrebbe non smettere più, perché la storia di lina non è soltanto la storia di una donna, ma di un quartiere, di una città, di migliaia di persone alle quali è andata di traverso la sua pasta e fagioli da un euro e il suo vino da crimini contro l’umanità.

credo sia un fatto generazionale che chi ha la mia età o poco più, ha anche un aneddoto che ha a che fare con lina e con il suo locale. ammesso che abbia fatto l’università a milano, è chiaro.

io lina l’avevo scoperta quando ero stato coinvolto in un collettivo letterario, che solo a scriverlo mi viene la nausea, ma tant’è. avevo vent’anni e un parruccone di lettere di cui non ricordo il nome ma il muso da topo, mi aveva invitato ad aderire all’iniziativa; aveva letto un mio articolo su un giornale che scrivevamo con altri disperati e gli ero piaciuto, mi aveva detto col tono che manco montanelli.

insomma, mi dà appuntamento li, dalla parte opposta della città rispetto a dove abitavo, all’incrocio tra via marco d’oggiono e via galeazzo alessi, di fronte alla trattoria di lina orsolina, che aveva sempre i vetri oscurati con le tovaglie a quadretti bianchi e rossi, appiccicati con lo scotch; roba che c’era da aver paura ad avvicinarsi.

poi dentro ci aspettavano altri sfigati come noi, già seduti con penna e quaderno in mano, come se ci fosse un’interrogazione e, sempre con un’ora di ritardo, si incominciava a parlare di letteratura. ora, lo giuro, mi piacerebbe tantissimo ricordare qualcosa di più, ma davvero non ricordo un accidenti di quegli inutili incontri, anche e soprattutto perché non ne scaturì mai nulla, neanche una riga stracciata. quello che mi ricordo - perché è difficilissimo rimuoverli - sono appunto la posta e fagioli e l’aceto che ci lina ci spacciava per vino. roba da torcerti le budella e stravolgerti l’intestino per il resto della vita. questo mi ricordo, il bagno oltraggioso (un buco nel pavimento, letteralmente, e nulla più - nel cuore di milano, anno del signore 2010), e poi ovviamente lina, che era già vecchissima dodici anni fa, sa dio come ha sopravvissuto una pandemia.

lei e il suo locale fermo agli anni cinquanta, non per modo di dire, immobile, teletrasportato da un’epoca lontana, inspiegabilmente autorizzato a servire il pubblico, quando poi la asl ti fa le pulci se la cappa non è a norma di quattro centimetri. lei e un angolo di milano, forse davvero l’ultimo, impermeabile al trascorrere degli anni, gli ottanta, i novanta, la moda, il design, i duemila e tutto il resto. ed è questo che oggi ci troviamo a commemorare in tanti: la perdita dell’autenticità, dell’anima più vera e fedele di un’epoca seppellita sotto montagne di superfluo.

da lina proiettammo il mio primo cortometraggio - mio e di altri meravigliosi scappati di casa - e siccome vivevamo nel mito del ‘68 e di quella musica lì e di quella narrazione li, la trattoria di lina e quell’atmosfera lì ci calzava a pennello. la serata andò oltre le aspettative e lina era contentissima. l’anno dopo mi trasferii a roma a studiare cinema e ogni tanto lina ancora mi chiamava per chiedermi come stessi e per ricordare quella serata della proiezione, diceva che era pieno di bei ragazzi come non ne aveva più visti da anni e mi chiedeva quando avremmo organizzato di nuovo un evento.

ora che abito a due passi dalla trattoria, mi sono trovato spesso a sbirciare tra le tovaglie appese al vetro, ma non ho mai visto segni di vita. non so se avrei poi voluto mettermi lì a parlare con lina, oppure si, ma ecco, mi sarebbe piaciuto ricacciare dentro la testa, anche solo un attimo, annusare l’aria e tornare a quel periodo li, che non era felice, che non era spensierato, che non rimpiango, ma che era quel periodo lì e basta, con quell’odore e quella luce, e ricordarmi cosa voleva dire avere vent’anni.

ciao lina. va bene così.

parole: 675

foto di matteo enrico lonardi

*foto di matteo enrico lonardi

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