il soldato di spalle, un trolley
c’è qualcosa, in quel trolley, che rende l’immagine - o ciò che a livello emotivo rappresenta - differente dalle centinaia che ci sono state proposte negli ultimi dieci giorni.
la composizione è di per sé perfetta; come se il fotoreporter avesse avuto un tempo infinito per sceglierla e curarla, una composizione più affine a quella di un pittore, piuttosto che un fotografo. il cielo plumbeo, le case basse e fatiscenti sullo sfondo, i detriti sull’asfalto. e poi quel monumento di spalle, raffigurante un soldato col fucile a tracolla, la bandiera in braccio, così sprezzante, così deluso, così - forse - spaventato. è impossibile rinunciare alla retorica, guardando questo soldato di bronzo, ai piedi del quale qualcuno ha deposto una corona di fiori; anche senza i morti coperti dai lenzuoli alle sue spalle, basterebbe lui a rendere lo scatto degno di nota. ma i morti ci sono. la mano insanguinata che spunta in primo piano è quella del padre, mentre alle sue spalle giacciono il figlio maggiore e la figlioletta. lo so perché il fotoreporter del new york times di foto ne ha scattate due: questa e una prima, quando i corpi non erano ancora coperti e il padre ancora respirava, due soldati ucraini cercavano di tenerlo in vita pochi istanti dopo il colpo di mortaio, invano. oggi c’è stata anche una piccola polemica che ricordavo simile per il ritratto del piccolo aylan rivolto sulla spiaggia turca di bodrum, controversia che si interrogava, allora come oggi, se fosse necessario, sul piano etico, mostrare i corpi esanimi dei bambini. io penso solo che ci sia poco che possa scuotere l’opinione pubblica più di un’immagine simile. sono foto che possono spingere un paese a entrare in guerra?
e poi il trolley, o meglio: i trolley; perché sono due. uno, davanti al corpo del padre, al centro della fotografia, l’altro, quello del figlio, spazzato in un angolo del memoriale. comparando le due foto, quella del prima e quella del dopo, si riconosce la valigia più scura del figlio, ancora vicina al corpo, poi scompare e si allontana. il trolley del padre invece rimane li, sia prima sia dopo, quel viaggio non consumato in terra, non consumato altrove, quel viaggio spezzato sull’uscio di casa. e ora, mi domando, che ne sarà di quel trolley? qualcuno lo prenderà? lo aprirà qualcuno e poi, che ne farà delle camicie, dello spazzolino, dei calzini e dei documenti? chi, in guerra, ha il tempo di occuparsi di certe cose?
c’è qualcosa, in quel trolley, che rende l’immagine differente dalle centinaia che ci sono state proposte negli ultimi dieci giorni. ed è la totale assenza di speranza. non nel cielo, non nelle case, non nelle statue, non nell’asfalto. il trolley, senza più qualcuno a tirarlo, contenendo ciò di cui nessuno è più padrone, è il ritratto stesso della più completa assenza di speranza.
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