“conta solo il successo”

capita talvolta che certe agenzie più grandi si appoggino a certe più piccole e che appaltino a queste la fornitura di certi servizi che internamente non hanno o le risorse, o la conoscenza, o il tempo di sbrigare da sole. per una realtà come no panic questa eventualità non dico capiti spesso, ma quando certi mesi diventa necessario far quadrare i conti, ecco si rivela un’occorrenza più che plausibile. e così ho trascorso l’ultimo mese a lavorare su un cliente di un’altra agenzia più grande, per conto della mia piccola no panic.

oggi poi con questa agenzia più grande, questo ingombrante intermediario che gestisce il rapporto con il cliente, siamo arrivati ai ferri corti; a poco serve specificare il perché e il percome, fatto sta che, chiusa la nostra parte di lavoro, rispettata nei tempi e nelle consegne, veniamo maleducatamente congedati.

e durante l’irritante chiamata con la quale mi sento richiedere uno sconto del tutto ingiustificato, questo intermediario dell’agenzia più grande - tra le varie boutade di cattivo gusto - se ne esce con questa frase che non mi esce più dalla testa da svariate ore: “per noi conta solo il successo.”

obietto che nel nostro caso però è il processo che conta, il come si è arrivati a un determinato risultato, a prescindere dal fatto che si possa definire un successo o meno: il brief lo abbiamo rispettato, il lavoro consegnato. ma lui no, ripete indefesso che “se il cliente non è contento, allora è un insuccesso”. e improvvisamente il suo mi è sembrato un modo di ragionare così vecchio, che mi sono scordato che la persona con cui stavo parlando al telefono non poteva superare i quarantacinque anni. “conta-solo-il-successo”. davvero si può ancora dire che se il cliente è contento, allora ci troviamo di fronte ad un successo? la verità - e io spero che siamo tutti d’accordo - è che il cliente raramente ha ragione. “il cliente ha sempre ragione” è una formula che io mentalmente ricollego ai primi del novecento, a un periodo in cui non vigeva nemmeno un vero e proprio stato di diritto e chi veniva pagato doveva sottomettersi al datore di lavoro, lasciando che la propria dignità venisse calpestata senza pietà senza colpo ferire. ma chi svolge un lavoro rivolto al pubblico, o parlo quantomeno del mio ambito, sa bene che il cliente, nove su dieci, non ha la più pallida idea di che cosa realmente voglia e in genere è convinto che avere un account twitter gli dia il diritto di saperne più di te sulla comunicazione. cos’è allora che determina il successo? la soddisfazione del cliente? cliente contento=abbiamo lavorato bene, cliente scontento=abbiamo cannato? che poi, anche se fosse (e non è), che vita deve condurre una persona che è focalizzata soltanto sul “successo”? che si alza ogni mattina e va al lavoro per raggiungere il “successo”, fottendosene di dare valore al processo?

niente, io non ne vengo a capo. sul momento gli avevo riso in faccia, poi smaltita la rabbia ho continuato a rifletterci. e temo che ci sia un gap fondamentalmente culturale a dividerci, me e il tizio dell’agenzia più grande, ovvero la comprensione profonda dell’assioma che fu prima di einstein (“io amo viaggiare, ma odio arrivare”) e poi di t.s. eliot, il quale scrisse la celebre frase: “quello che conta è il percorso del viaggio, non l’arrivo”. e queste son cose che purtroppo o ti hanno insegnato da bambino o non imparerai mai, perché definiscono strutturalmente la persona che oggi sei. soltanto che, a mio modesto avviso, chi oggi vive secondo regole come questa, ignora che sono simili concetti ad aver precipitato il mondo nel baratro in cui si trova oggi, il motivo precipuo per il quale i più giovani dopo la pandemia rifuggono anche i posti di lavoro più stabili e ben retribuiti: perché i soldi non bastano più e il “successo” lascia un grande vuoto, se raggiunto senza che venga dato peso al processo alla sua base.

insomma. se negli ultimi anni ero riuscito a capire una cosa soltanto, è che le parti migliori della mia vita sono scaturite da un fallimento. sono un fallitore seriale (non esiste questa parola) e ne vado orgoglioso; i fallimenti mi hanno insegnato così tanto di più dei successi e le gare che ho perso sono massicciamente più numerose di quelle vinte, ma nessuna di loro - vinte o perse - mi hanno lasciato indifferente, ciascuna mi ha insegnato qualcosa che non conoscevo e che più avanti si è rivelata utile.

ma son mica solo io a dirlo. perfino all’ingresso degli headquarter di wieden+kennedy a portland, la scritta “fail harder” accoglie ogni giorno i dipendenti; e si tratta di un’assioma adottato anche da steve jobs durante il recruitment di coloro che hanno reso grande la apple durante gli ultimi decenni: ai colloqui non veniva mai domandato un résumée dei propri successi, ma dei propri fallimenti, perché erano questi a raccontare la determinazione, l’inventiva, lo spirito creativo e combattivo di un individuo.

il successo è quello che ha garantito la fortuna delle imprese e la sfortuna del pianeta, la benedizione dei calcolatori e la sciagura dei visionari. che minchia c’entra con la soddisfazione del cliente, poi. mah.

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