bereal e il social buono

«Per avere in mano la propria vita,

si deve controllare la quantità e il tipo

di messaggi a cui si è esposti.»

— Chuck Palahniuk

 

IlSole24Ore l’ha definita una “provocazione da intellettuali”, ma a luglio ha superato TikTok per download: soltanto il 17 luglio scorso se ne sono registrati 330mila. Ha cominciato la sua ascesa in un momento che non poteva essere migliore, cavalcando l’ondata di malcontento che ha scosso Instagram a partire dall’ultima versione, così dispersiva, così approssimativa e distaccata dalla community utente. E dell’anti-Instagram – come ormai si sta affermando – ha ogni ingrediente, rappresentandone una forma diametralmente opposta, dall’interfaccia alla user experience.

BeReal sta a Instagram come Lars Von Trier sta a Hollywood, come il suo Dogma sta ai manierismi dei blockbuster patinati degli anni novanta. Ma BeReal ricorda anche una certa rete ormai preistorica, come quella che ospitava – tra gli altri – ChatRoulette, un web istantaneo, sporco, sguaiato, randomico, genuino e sincero.

Il nome dice un po’ tutto quello che c’è da sapere: sii autentico, si potrebbe dire; perché il concetto della piattaforma è l’obbligo di mostrarsi hic et nunc, senza imbellettamenti, non quando lo vuoi tu, ma quando te lo chiede il social stesso, senza filtri, senza upload, e con soltanto centoventi secondi di vincolo dal momento della notifica per realizzare una “memoria” con doppia fotocamera, frontale e posteriore, che mostri sia la tua momentanea attività, sia te stesso mentre la compi. Ed effettivamente riscorrendo le mie memorie della scorsa settimana, restituiscono un mosaico fedele e realistico di una routine tutt’altro che noiosa, nella sua semplicità. E l’estrema personalizzazione e intimità del contenuto pervade anche le reazioni, che sostituiscono pollici, cuori ed emoticon con miniature delle stesse foto dell’utente, che può quindi apporre un’espressione del proprio volto al contenuto degli amici.

BeReal è un social media francese, lanciato nel 2020 da Alexis Barreyat, ma che ha vissuto i due anni di pandemia in sordina, trovando un proprio riscatto soltanto nell’ultimo trimestre; un successo che non è di certo passato inosservato alla controparte di Menlo Park, che già nello scorso luglio ha implementato alcune funzioni di Instagram sulla falsa riga di BeReal, lanciando la dual camera e testando la cosiddetta “IG candid challenge”, che prevede un invito agli utenti a postare in una finestra temporale quotidiana e comune. Che fantasia.

Infatti la voglia e il bisogno di normalità, di autenticità, di genuinità da parte della Generazione Z è ormai cosa nota, dopo che i numeri sullo stress post-pandemico si sono fatti allarmanti, denunciando i gravi disagi psicologici sopportati da giovani e giovanissimi anche e soprattutto a causa degli standard estetici e sociali fissati dai media online. Di piattaforme come BeReal c’è una gran necessità, che questa sia arrivata per rimanere o meno (la rapida ascesa e l’ancor più repentino declino di Clubhouse ci hanno dimostrato quanto il successo di queste piattaforme possa rivelarsi effimero), se non altro per dare una scossa al mercato e dettare un percorso più virtuoso ai colossi californiani e cinesi.

Ciò detto, il quesito fondamentale rimane uno ed è: quanto tempo passerà prima che anche i brand facciano il loro ingresso sulla scena di BeReal? Perché si tratta davvero di una questione di quando e non di se, essendo stata questa la discriminante che ha influito su ogni social media affacciatosi sulla scena mondiale, preludio inesorabile alla sua regressione mainstream.

 “The Great Escape” è come i media hanno battezzato le dimissioni di massa che hanno coinvolto milioni di persone in tutto il mondo a partire dal primo lockdown; ma di grandi fughe, ancora più caratteristica, ancora più rappresentativa dei tempi che stiamo vivendo, c’è quella di un pubblico in costante evasione dai boomer e dalla pubblicità, orpello ormai insopportabile quanto – purtroppo – indispensabile per il proprio intrattenimento.

 Sarà anche una provocazione da intellettuali, ma se il risultato è creare piattaforme più sincere, che stimolino una rappresentazione di sé più genuina e meno stereotipata, allora ben vengano le provocazioni. E godiamocele fintanto che non siano ancora raggiunte dalle sponsorizzazioni.

parole: 668

questo articolo è comparso sul magazine di no panic agency l’8 settembre 2022

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