vuoti di performance

ho smesso di scrivere quando ho percepito la pressione effimera del dover risultare interessante. ciclicamente questo mi accade, da un giorno con l’altro, e allora devo smettere di scrivere, per quanto ne possa avere voglia, per quanto mi sovvenga un embrione di idea o di pensiero, allora so che mi devo fermare e attendere. leggere, principalmente, si rivela essere l’antidoto. leggere come rifornimento, per riempire il granaio esausto e ritrovare un poco di sincerità e di verità in quello che scrivo. perché la performance - gli attori lo sanno bene - alla lunga uccide la spontaneità. nel cinema spesso (soprattutto nei film meno recenti, quando agli attori veniva dato il tempo di lavorare come si deve su un personaggio) questa interpretazione onesta riesce a bucare lo schermo e coinvolgere il pubblico, mentre a teatro si deve fare uno sforzo continuo per ricercare nuovi aspetti del dialogo e della dinamica tra i caratteri per non smarrire la verità di ciò che si porta in scena attraverso le innumerevoli date della recita. dover parlare e dover essere interessanti, alla lunga, snaturano la narrazione onesta, facendola risultare forzosa e posticcia. 

ognuno ha i propri metodi, io mi fermo e aspetto, mi rifocillo per così dire di contenuti, in attesa di una scintilla che mi dica “ora è il momento” e allora riparto. 

lavorando con il human branding, ovvero sugli aspetti più umani del carattere della marca - sui suoi small data, per così dire - mi risulta imprescindibile ragionare sul fatto che anche un’azienda, se dotata di carattere umano, possa arrivare a una saturazione di contenuti che la possano portare ad arrestarsi e a ragionare sull’onestà dei propri messaggi. la dinamica algoritmica in certi casi risulterà impietosa nel punire questo vuoto di performance, eppure vale la pena riflettere se un comportamento spontaneo ed estremamente umano, appunto, come questo non possa accrescere una relazione empatica con il pubblico che, riconoscendovi un atteggiamento quantomai onesto, possa giovare alla reputazione di marca e alla conseguente fedeltà da parte del consumatore.

trasformare la retorica “slow” in un ritratto quanto più fedele delle fragilità come dei limiti propri dell’essere umano, tacendo quando non si ha nulla da dire, riflettendo quando si è in dubbio, scoprendo il fianco - se necessario - di fronte alle avversità del quotidiano. 

questo l’antidoto - forse - alla bulimia da contenuti intrinseca ai macchinosi apparati delle grandi aziende che quotidianamente si sbracciano per farsi notare, in questo mare magnum di brutti aforismi e ricorrenze e mediocri immagini stock che in nessun modo rispecchiano la relazione che si intende instaurare con il proprio pubblico, che in nessun modo raccontano il prodotto che si intende vendere, mostrando soltanto la pochezza dei propri intenti spudoratamente commerciali. 

tacere, quando non si ha nulla da dire. 

non sarebbe meraviglioso?

e rivoluzionario.

e onesto.

parole: 465

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