appendice [1]

A Stoccolma gettano il ghiaino sulla neve, invece del sale. Lo distribuiscono su strade e marciapiedi una sola volta, dopo la prima grande nevicata, e lo raccolgono con l’arrivo della primavera, a metà marzo, con grossi camion che sollevano nuvoloni di polvere per tutta la città. Per i bambini l’odore di quella polvere rappresenta il preludio alla bella stagione, il profumo del buono che li aspetta. Ma fino ad allora il ghiaino resta in terra e se la neve per qualche giorno, nel bel mezzo dell’inverno, si scioglie, ci si ritrova a camminare in una poltiglia bagnata di ghiaia, polvere e acqua. Come ora. Nel cielo plumbeo le nuvole si inseguono velocissime, tutte nere, tutte grigie e la gente attraversa parchi e strade con spessi stivali di gomma e gli interni di lana.

Io non sono attrezzato per questo tempo, dall’Italia ho portato le mie scarpe più calde, ma l’acqua passa lo stesso. Anche la giacca che ho addosso non va bene, il piumino mi scalda le braccia e la pancia, ma davanti è scollata e la sciarpa non riesce a proteggermi dalle raffiche di vento freddo. Ero convinto di aver fatto una buona valigia, ma nella concitazione non mi sono reso conto che nulla di ciò che ho portato mi avrebbe protetto dall’inverno di Stoccolma. Agli svedesi piace vestire tecnico e non lesinano sull’abbigliamento invernale. Mi sembra che anche i bambini, vedendomi, ridano sotto i baffi. 

***

Quando è arrivata la chiamata ci eravamo appena messi a letto. Quello stesso pomeriggio avevamo finito per la prima volta di sistemare la casa; niente più scatoloni tra i piedi, niente più macchie nella vasca, niente più polvere sulle mensole della cucina. Solo casa, con il fuoco del camino, il profumo del detersivo alla lavanda che avevamo dato sui pavimenti, il silenzio della montagna disturbato solo dal suono irregolare della neve che, a poco a poco, scivolava giù dal tetto. Avevamo mandato le foto a parenti e amici: “questo è il soggiorno”, “questa la vostra camera da letto”, ci piaceva farla sentire la casa di tutti. 

Lui aveva risposto: “Che meraviglia, è la casa dei vostri sogni.”

La sera avevamo mangiato del caprino sui cracker e qualche fetta di salame; per l’occasione avevamo anche aperto una bottiglia di sauvignon e lo avevamo bevuto davanti alla televisione, guardando un dvd. Eravamo stravolti e avevamo deciso di andare a letto presto. Per la prima volta dormivamo nella nostra camera da letto e non sul soppalco e assaporavamo il piacere di cambiarci per la notte prendendo i vestiti dalla cabina armadio e non dalla valigia.

Le ventitré e trenta, ci sdraiamo e, come d’abitudine, ciascuno legge qualche pagina di un libro, prima di abbracciarci e addormentarci.

***

Passo in rassegna le giacche appese all’ingresso, bisogna trovare le chiavi della macchina. Sono tutte grandi e pesanti, ma soprattutto piene di tasche, esterne, interne, sui gomiti, sotto le ascelle, sul petto, sugli avambracci. Con un misto di imbarazzo e di tristezza le apro e in ciascuna, dalla più grande alla più piccola, trovo fazzoletti usati e dolcetti, caramelle, chewing gum, o solo le cartacce vuote. A volte trovo anche dei soldi, ma quando finisco l’operazione, sul pavimento si è formato un grosso cumulo di carta e di dolci. Se non sapessi con certezza che appartengono a un uomo di sessantacinque anni penserei che si tratti delle tasche di un bambino. Divido carta e plastica, no le chiavi della macchina non ci sono, e mi dedico al bagno. Le etichette sono tutte in svedese e fatico a distinguere i prodotti che usava lui da quelli di Diana, anche perché so che amava prendersi cura del proprio corpo e molte creme potrebbero essere dell’uno come dell’altra. 

È questo il mio compito adesso: togliere ciò che farebbe pensare che lui stia per rientrare da un momento all’altro dalla porta, con quel sorriso da furbo di chi ha fatto lo scherzo dell’anno. 

***

La vidi scomparire, in un attimo. Temetti che il pigiama con le piccole fragoline potesse scivolare in terra, vuoto, e che non l’avrei mai più rivista. Ma lei era ancora lì, non più lei, tremante, al bordo del letto, gli occhi sgranati e pieni di orrore e di paura, come quelli dei bambini quando non vedono più i genitori e d’improvviso si sentono vulnerabili e soli. Io mi lanciai addosso a lei, sapendo, ma riuscendo solo a dire “guardami” e “sono qui” e stringendola forte a me e accarezzandole forte la schiena e la nuca; “sono qui” le dicevo ma non ne ero neanche sicuro che fosse vero perché come lei non era più lei, nemmeno io mi sentivo più io e le mie rassicurazioni suonavano come una litania vuota. 

Avevamo già immaginato tante volte quel momento e ci eravamo figurati il da farsi, quindi i nostri movimenti - lo avremmo capito soltanto più avanti - erano governati da quei programmi soltanto discussi con leggerezza e non con la consapevolezza che un giorno si sarebbero potuti concretizzare. 

Sapevamo che avremmo dovuto guardare i voli immediatamente, e controllammo i voli.

Sapevamo che avremmo dovuto fare in modo che Diana non fosse mai sola, e parlammo con la mamma della sua amica.

Sapevamo che le valigie avrebbero dovuto essere pesanti, perché si sarebbe trattato di una trasferta a tempo indeterminato, e facemmo le valigie. Presi qualcosa, delle maglie, un paio di pantaloni, lo spazzolino, poco altro. Quante volte capita di fare una valigia senza sapere la durata dell’assenza?

***

Una volta stavamo parlando di quanto l’innovazione tecnologica corresse veloce e di quanto fosse difficile stare al passo con la trasformazione dei vari dispositivi. Lui scattò in piedi e mi disse di aspettare in soggiorno, mentre quasi di corsa salì le scale che portavano al suo studio. 

Aveva questo entusiasmo contagioso che si ritrova soltanto nei bambini, quella stessa voglia di mostrare i propri giochi e di spiegarne il valore inestimabile agli adulti, passandoli in rassegna uno per uno.

Per circa mezz’ora ascoltai un gran trambusto al piano superiore, come se stesse cambiando posizione a tutti i mobili. Davvero non avevo idea di cosa stesse facendo. Sicuramente il tema tecnologico lo appassiona, anche in questo io e lui siamo sempre stati differenti; da quando lo conosco la mia vita è trasformata, l’iPhone che ho in tasca è suo (mi ha inserito nella catena per cui i telefoni passano da lui alle figlie e poi direttamente a me, con cadenza annuale), la musica che ascolto è del suo abbonamento Spotify, come a suo nome è il canone Netflix e sue sono le cuffie bluetooth. Prima di conoscerlo collezionavo macchine da scrivere, per intenderci.

“You can come now!” 

Salgo le scale che portano al piano di sopra e scopro che ha allestito nel suo studio una mostra, con tanto di piedistalli e illuminazione dedicata, in cui lui ha esposto una serie interminabile di memorabilia in ordine cronologico, dal Commodore 64 all’iMac G4, dal primo iPod all’iPhone 2G, passando per gli oggetti più assurdi che io abbia mai visto, come lo Sputnik, un rasoio elettrico sovietico a caricamento manuale e un computer dallo scheletro di legno che lui stesso aveva costruito durante l’università. E mentre io, sbalordito, cominciavo a osservarli uno per uno, lui mi seguiva come un’ombra, il sorriso orgoglioso stampato in faccia, le mani dietro la schiena e ogni oggetto lo prendeva e me lo mostrava, raccontandomene ogni sfaccettatura tecnica, come se quegli oggetti li avesse concepiti e costruiti lui stesso. 

Anche questo, di lui, avrei scoperto molto presto: mi suocero ha sempre tenuto tutto.

***

Riuscimmo poi a trovare un volo per il martedì mattina, così avremmo avuto il giorno seguente per chiudere la casa e fare con calma tappa a Milano. Lo strazio, l’angoscia di non essere con Diana in quelle ore ci prendeva entrambi allo stomaco, aggiungendo altro dolore al dolore. 

Lei non riusciva a chiudere gli occhi che veniva assalita da immagini terribili, allora la sera prima della partenza ho preso un libro, Dürrenmatt, e glielo ho letto. Gli occhi mi dolevano dal sonno, la notte precedente non avevamo dormito che un paio di ore, e lei attardava a rallentare il respiro, così lessi alcuni capitoli con la voce più dolce e il passo più lento di cui fossi capace, mentre poco a poco il suo capo, stretto sotto l’ala, non si rilassava da quella morsa tremenda della quale era preda da un giorno intero. 

Non saprei neanche dire di cosa parlasse il libro, tanto i miei pensieri erano distanti. In quel gesto, che generalmente appartiene a un genitore, scoprivo tutta la tenerezza di una nuova concezione di amore, di cura e di conservazione. Rappresentava, quel gesto così paterno, il passaggio di consegna forzato e inaspettato in cui i ruoli fino ad allora stabiliti - così nordicamente paritari - subivano uno smottamento che mi richiedeva una consapevolezza nuova, una forza nuova, un nuovo modo di amare.

Ci addormentammo infine quando, biasciando, le parole che leggevo non avevano più il minimo significato e mi sfuggivano di bocca come scorreva la pioggia sui vetri della finestra.


parole: 1.506


Continua.

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