non esisto veramente

“i got this theory, in private, that i don't actually exist."

— gloria burgle


la terza stagione di fargo è certo la più intorcinata e dispersiva, ma anche la più fedele allo stile dei coen, sia per struttura dei personaggi, sia per scelte estetiche e per l’andirivieni kosher tra ambientazioni e flash est-europei. 

la protagonista di serie, capo della polizia di eden valley e interpretata da carrie coon, sembra arrancare per le prime puntate, dovendo coltivare una complessità che ingrana col diesel (rispetto alle caratterizzazioni riservate ai personaggi interpretati da david thewlis e ewan mcgregor - che di personaggi ne interpreta due) e che sorprendentemente sboccia dopo la quinta puntata.

ciò che gli autori però stavano facendo - mentre gente come me storce il naso in cerca di falle  (dopo le vette della prima stagione è facile cadere nella trappola della critica eccessiva) - era seminare con delicatezza gli indizi per costruire la reale profondità della protagonista; si potrebbe dire che mentre mi concentravo sullo sboccio pigro del fiore, gli sceneggiatori stavano, con tutt’altro passo, affondando le radici nel terreno della narrazione.

ma questo l’ho scoperto solo nella penultima puntata. 

succede infatti che nell’arco di ciascun episodio della terza stagione, gloria burgle (il capo della polizia) incappa in scene - apparentemente - di servizio, in cui il suo corpo non viene riconosciuto dai dispositivi automatici: né dai sensori delle porte scorrevoli, né da quelli di lavandini, dispenser di sapone o asciugamani elettrici. ora, il cinema dei coen è ricco di simbolismi come questi (se non più criptici - basti pensare al gabbiano nel finale di barton fink), eppure mai si era giunti ad una sintesi tanto limpida come in questo caso (di fatto, poi, la regia della serie è un pastiche dello stile dei coen, essendo firmata da un collettivo di professionisti distinti), quando queste che potrebbero apparire come semplici gag trovano un compimento risolutivo che riesce a intrecciare trama, relazione e caratterizzazione nel giro di pochi minuti. 

nella penultima puntata la burgle confessa dunque alla sua amica che a volte dubita della propria esistenza, dal momento che regolarmente le capita che il suo corpo non venga riconosciuto da porte automatiche e lavandini. l’amica a quel punto la invita a mettersi in piedi, si alza a sua volta e l’abbraccia a lungo; dopodiché la burgle va in bagno e si ritrova di fronte a un lavandino automatico, che fissa a lungo prima di allungare la mano verso il sensore, che scatta, strappandole un sorriso, come scatta il dispenser del sapone e anche l’asciugamani con rilevatore di prossimità. questa è la prima volta - tra decine di ammazzamenti e crudeltà varie - che scopriamo il sorriso della burgle, la quale ha appena appreso qualcosa di molto semplice, ovvero che sono i sentimenti a scagionarci dal nostro stato di invisibilità, facendoci esistere, dando senso al nostro vivere: la speranza è la nostra unica salvezza in un mondo crudele. 

e va bene, bravi tutti. 

poi però mi sono ricordato di un’altro minuscolo tassello che gli autori hanno seminato nelle prime puntate. a un certo punto - no spoiler - la burgle finisce a bere un drink con un collega californiano, un provolone di terz’ordine, che le chiede di seguirla su facebook. la burgle replica che non ha facebook (“vengo da un piccolo paese, ci conosciamo tutti quanti”) suscitando lo stupore del poliziotto hollywoodiano che esclama (come abbiamo certamente sentito esclamare a nostra volta): “ma se non sei su facebook non esisti!”

ora, contestualizzando questa battuta, è necessario sapere che la serie è stata scritta nel 2017, ma è ambientata nel 2010 - l’anno del boom globale del social network. di certo non voglio dire che l’intera trama sia stata costruita con quello scarto di tempo solamente per il corretto funzionamento di una singola battuta, ma è certo intrigante pensarlo. oggi - come già tre anni fa - quella battuta (“se non sei su facebook non esisti”) risulta obsoleta: la fuga dai social network si è trasformata in un gesto nobile e responsabile, mentre anzi il nuovissimo trend è condannare i social per gli abusi verso la nostra privacy (continuando curiosamente a rimanerne utenti attivi). 

insomma, l’invisibilità della burgle si esprime in primis come un corpo analogico che non viene riconosciuto nella realtà automatizzata e digitale. è solo nell’abbraccio con olivia sandoval che il capo della polizia di eden valley finalmente rinasce dalle ceneri di quell’interregno di cui troppo a lungo è stata preda: la solitudine analogica di una donna abbandonata dal marito e inascoltata sul lavoro + la solitudine virtuale di chi sceglie di astenersi dalla realtà digitale. 

al netto di dieci puntate, questo è l’unico momento in cui venga possibilmente giustificata la scelta di ambientare la “true story” (che true non è, ma a sua volta pasticcio di eventi reali) in un anno tanto generico quanto il 2010 - se non proprio per avere rappresentato la porta d’ingresso all’universo social che oggi è alla base delle relazioni umane su scala globale.

nella seconda puntata gloria ancora si lamenta di non venire ascoltata quando parla e domanda al partner donny: “i’m here, right? you see me?” e lui le risponde candidamente: “is that a trick question?” sì, è un trucco. è tutto un grandissimo trucco. 

parole: 858

Indietro
Indietro

i mammiferi

Avanti
Avanti

fellini e il vaccino