bulimia
la bulimia da serie è un ulteriore aspetto che ricorderemo del 2020: l’anno in cui la serialità ha spazzato via definitivamente i cari 90 minuti — circa — di un lungometraggio. per darci un senso di continuità, certo, epperò senza mai conferire reale valore, fine a sé stesso, alla singola giornata: sempre protratti verso la prossima puntata, e un’altra ancora, perché tanto le vere serie ormai non finiscono (belli i tempi di vince gilligan e del suo niet dinnanzi alle lusinghe delle emittenti di tutto il mondo) e si assomigliano un po’ tutte — ogni puntata di una serie è in qualche modo uno spoiler di un’altra serie, seppure ambientata in epoche diverse (queen’s gambit, interpretato e diretto in più momenti meravigliosamente, rimane il cliché del cliché della ridondanza e pura prevedibilità di cui solo gli americani sono capaci).
si può dire? che palle.
stasera ho finito vikings. 79 puntate, 6 stagioni. dopo la terza, solo fretta. complice l’imbarazzante interpretazione di jonathan rhys-meyers — chissà cosa si è pippato dopo match point — che non riesce a dare credibilità al suo personaggio mai, né da vivo né da morto, né mentre mangia, né mentre scopa. mai, neanche per sbaglio, per due intere stagioni, questo formidabile incapace riesce a dire (dire!) una sola battuta senza sfiatare come un calorifero. e fosse soltanto lui.
ma nonostante questo, ho smesso di guardare? no. e soltanto per inerzia, lamentandomi con me stesso per oltre un mese, ho continuato con la mia compagna a macinare indefesso ore intere di massacri eccellentissimi e dialoghi scritti coi piedi. perché? perché è l’unico elemento di continuità di questo anno schifo. perché quest’anno va vissuto nel domani, perché l’oggi non merita di essere celebrato.
e questa singolare bulimia sopravviverà la pandemia, già lo sappiamo. troppo facile superare la qualità con la quantità, ma non è forse il paradigma di ogni singolo aspetto della società in cui viviamo? swaiparne 100 per chattare con una. a scatola chiusa. con la pubblicità.
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