una scelta personale
"i'm happy, my family's happy, everything is going well."
- novak djokovic
gioca questo tennis tentacolare, sgraziato, tecnico, efficacissimo. il suo aspetto generalmente ispira simpatia, viso allungato, sorriso guascone, secco secco lungo lungo. ma quando gioca di simpatico non resta più nulla, sfuriate, racchette disintegrate, imprecazioni, grinta smisurata, determinazione incrollabile (agli us open 2020 una palla colpita con rabbia aveva beccato la giudice di linea alla gola, costandogli un cartellino rosso).
con un montepremi di oltre 150 milioni di dollari, è l’atleta che ha ottenuto i maggiori guadagni nella storia del tennis. ça va sans dire, è considerato uno dei tennisti più forti di tutti i tempi. non male per quel bambino serbo cresciuto giocando a tennis sul fondo di una piscina vuota di belgrado, sotto i bombardamenti della nato.
ad un carattere tanto pieno di sé, cui non mancano i supporter più entusiasti (la sua famiglia ama paragonarlo a gesù cristo e a spartaco), gli anni di pandemia non hanno giovato granché. i primi segnali di instabilità novak (una routine conclamata di saluti al sole, sedute meditative, yoga e compagnia cantante) li lancia in piena prima ondata, quando a fronte della decisione dell’atp di sospendere tutti i tornei del circuito, organizza l’adria tour - un cosiddetto “exhibition tour” - nei balcani a cavallo tra giugno e luglio 2020. sugli spalti imballati, al pubblico non è stato chiesto di mantenere il distanziamento e ogni altra norma prevista o suggerita a livello mondiale nei mesi precedenti è stata ignorata. risultato (prevedibile): un disastro. positivo al virus grigor dimitrov, positivo borna ćorič, positivi anche quel matto di viktor troicki e la sua moglie incinta; ma soprattutto positivi anche djokovic stesso e sua moglie jelena, a questo punto complici di quello che in italia chiamiamo reato di epidemia colposa e che probabilmente non è previsto dal codice pensale serbo. ad oggi è ancora incalcolabile la diffusione del virus che ha avuto luogo nei giorni del tour. novak dopo pochi giorni si scusa, un mese dopo si rimangia tutto e annuncia di non avere rimpianti.
insomma, lo tsunami si poteva vedere arrivare. lo si poteva già scorgere quando in piena pandemia novak dialogava in diretta instagram con il sedicente guru del benessere chervin jafarieh del potere di trasformazione delle molecole dell’acqua attraverso la forza del pensiero. oppure quando - mettendo da parte le credenze new age - la scorsa estate hanno circolato immagini del tennista seduto al ristorante in compagnia di milan jolovic, ex comandante dei “lupi della drina”, unità paramilitare che partecipò al massacro di srebenica. novak non ha mai voluto commentare l’accaduto.
a conti fatti, che djokovic covasse una personalità borderline e che potesse mettersi a capo (sul piano ideologico) del movimento no vax non possiamo dire di averlo scoperto tre settimane fa, quando è stato trattenuto nel park hotel di melbourne a fronte della sospensione del suo visto da parte delle autorità australiane (sul park hotel consiglio inoltre di ascoltare questa puntata di stories di cecilia sala).
un breve recap a beneficio di tutti coloro che non hanno seguito la vicenda, da un articolo de ilpost:
“[…] il tennista era stato bloccato all’aeroporto di melbourne per alcune verifiche sull’esenzione medica dal vaccino contro il coronavirus, richiesta dalla legge australiana ai non vaccinati per entrare nel paese. il governo australiano gli aveva negato il visto di ingresso, ma poi un tribunale aveva dato ragione a djokovic, permettendogli di lasciare l’albergo in cui era bloccato e di cominciare ad allenarsi, in vista dell’inizio del torneo, previsto per lunedì 17 gennaio.
[…] poi era stato lo stesso djokovic a pubblicare un lungo comunicato in cui ammetteva di avere violato l’isolamento mentre era positivo al coronavirus, e in cui aveva spiegato il motivo di alcune dichiarazioni false contenute nei documenti presentati per ottenere il visto per l’australia.
[…] il ministro dell’immigrazione australiano alex hawke aveva allora annunciato la nuova cancellazione del visto di djokovic «per motivi di salute e ordine, sulla base dell’interesse pubblico».
[…] secondo la legge australiana djokovic non potrà rientrare in australia per i prossimi tre anni salvo in circostanze straordinarie.”
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ecco qua. un vero macello, insomma. e tutta farina del suo sacco, peraltro.
ma c’è una questione, in tutta questa vicenda, poco esplorata e che invece dovrebbe avere un valore primario, sul piano etico, della comunicazione, come della responsabilità sociale. e sono gli sponsor. partiamo col dire che stiamo parlando di un giro d’affari di oltre trenta milioni di euro, quindi non noccioline.
raiffeisen bank international, hublot, lacoste, asics, head, lemero, netjets, peugeot, ultimate software group. ognuno con la sua fetta di contratto e di impegno, ognuno con il suo investimento, ciascuno di questi brand ha impegnato la propria immagine legandola a quella del tennista serbo.
e a fronte di tutto quello che abbiamo visto fin qui - non per ultimo l’affaire melbourne - che posizioni hanno preso questi brand verso i gesti e le parole di djokovic? al 18 gennaio, secondo forbes, lo stato dell’arte era questo:
parlando di responsabilità, un bilancio francamente tragico. e anche dopo due settimane non sono stati fatti passi avanti degni di nota, tutt’altro.
la risposta della banca austriaca poi ha un che di comico; come se un brand che sponsorizzasse harvey weinstein dicesse “sponsorizziamo il signor weinstein da ben prima che violentasse attrici nel suo studio.” linea difensiva analoga a quelle di ibm (produttrice delle matrici con cui venivano catalogati i detenuti dei campi di concentramento nazisti) e di hugo boss (che disegnò le uniformi delle ss): “collaboravamo con baffetto da ben prima che invadesse la polonia!” ah beh, allora.
il brand svizzero di orologeria hublot, con cui Djokovic ha firmato nell'agosto dello scorso anno, ha rotto il silenzio in quella che sembra una dimostrazione di sostegno verso uno dei suoi associati di più alto profilo. il ceo ricardo guadalupe ha detto a reuters che il marchio stava aspettando di ascoltare Djokovic in merito alla sua personale esperienza e ora ritiene che "i vaccini sono una questione privata. diamo valore alla libertà personale, ognuno può decidere. si può essere a favore o contro. questa è la nostra posizione”. beh, chapeau. infine ha aggiunto che è certo che djokovic tornerà a esprimersi sulla questione una volta concluso l’open d’australia. bon, open finito, di novak ancora nessuna traccia. né di hublot.
lacoste, invece, il 18 gennaio aveva rilasciato un comunicato stampa in cui annunciava che “atleta e azienda dovranno rileggere quanto successo in Australia”. siamo a febbraio. ancora nulla.
il minimo che si potesse fare (il minimo!) era condannare il gesto e prendere le distanze dall’atleta, in attesa di rivedere il contratto.
insomma, niente “effetto-tiger-woods” in vista. il fuoriclasse del golf, infatti, nel 2009 venne travolto da uno scandalo a luci rosse che gli costò buona parte dei centodieci milioni annui che gli sponsor gli garantivano. prima venne accenture e poi, una dopo l’altra, at&t, gillette, electronic arts, gatorade e nike (molte tornarono sui loro passi quando solo due anni più tardi woods tornò a vincere il world challenge).
da hublot diciamo che non ci aspettavamo granché, a fatica è reperibile la voce sostenibilità online, emergendo qualcosa soltanto in merito alla responsible jewellery council policy. ma di lacoste onestamente non possiamo dire lo stesso, trattandosi di uno dei brand fra i più chiassosi in materia di CSR da prima che diventasse trendy.
da un brand come questo, che tanto impegno riserva alle tematiche di responsabilità sociale, allo sviluppo della comunità globale, al sacrificio individuale per la crescita collettiva, un silenzio assordante come questo sulla partnership con uno degli esponenti no vax di spicco a livello mondiale è inaccettabile.
una scelta personale, per dirla con il ceo di hublot, può essere quella di djokovic di non vaccinarsi (a mio personalissimo avviso nemmeno quella, in verità), ma i brand, nel contesto attuale, non hanno il diritto di sottrarsi all’impegno per il bene comune. stiamo parlando di due misure diverse, di sport completamente distinti. sollevare un tennista dalle sue responsabilità non solleva automaticamente anche le aziende dalle proprie. e questo deve essere estremamente chiaro a tutte le parti in gioco.
e poi tutta questa responsabilità sociale, tutto questo impegno per la comunità, tutta la csr e le chiacchiere corporate - perché di questo evidentemente si tratta - dove vanno a finire quando davvero diventa rilevante? che fine fanno tutti i buoni propositi per un mondo migliore, se poi non si riesce a prendere le distanze da un individuo pericoloso che promuove idee pericolose grazie alla sua immensa influenza su una fanbase planetaria?
si tratta di un silenzio grave, ma che dovrà necessariamente venire interrotto, perché oltre all’australian open, tutti gli altri maggiori tornei del circuito atp, compresi quelli del grand slam (us open, wimbledon, roland garros) hanno previsto la partecipazione soltanto per gli atleti vaccinati, senza eccezioni di sorta. dovesse mancare djokovic all’appello del grand slam, si tratterebbe di una perdita stimata intorno agli otto milioni di dollari (ricordiamo che la somma complessiva di sponsorship ammonta a trenta milioni, dunque enormemente maggiore rispetto a quanto il tennista serbo si guadagna sul campo), con ripercussioni gravissime non soltanto sull’immagine dei brand sponsor, ma anche sui loro investimenti di marketing.
oh, che poi mica è obbligatorio avere gli sponsor. il croato ivo karlovic ha giocato per anni senza (pare solo per una particolare idiosincrasia dei responsabili marketing). senza sponsor si può giocare. senza vaccino, giustamente, no.
questo articolo è comparso sul sito di no panic agency il 28 gennaio 2022