le isole fantasma

“ […] i’ vengo per menarvi a l’altra riva

ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.

E tu che se’ costì, anima viva,

pàrtiti da cotesti che son morti […] ”

Dante Alighieri, Divina Commedia (Inferno, Canto III, vv.84-89)

I suoi baffi, tanto per dirne una. Nessun baffo al mondo somigliava ai suoi. Erano i baffi delle caricature di Les Echos. Larghi quanto il braccio di una donna, gli ricadevano sul petto come un ruscello di montagna, per poi risalirne la china fino alla spalla. Lisci e puliti. Che non gli venissero a chiedere cosa avesse di speciale.

Li aveva sentiti parlottare tra loro alla stazione di Saint-Sulpice. “Cosa avrà mai di speciale quel bestione di Carlus?”

Se lo chiedevano perché la sera prima erano andati tutti a bere da Père Léon, al Lapin Agile. E al Lapin ci lavorava Rossana. Una ragazza dai modi carini, sempre gentile con tutti. Rossana la rouge, chiamata così per i suoi capelli stappati da una bottiglia di Bourgogne. Rossana prima faceva la modella in Italia, Carlus non si ricordava bene dove, poi si era innamorata di un pittore-armadio che se l’era portata a Montmartre e adesso lei gli pagava le tele servendo ai tavoli.

Andavano da anni ormai al Lapin Agile tutti i martedì e i giovedì sera, perché quei giorni Léon il primo Pernod te lo offre, se hai il taxi. E Carlus il taxi ce lo aveva. In tutti quei martedì e giovedì sera, decine e decine di martedì e giovedì, Rossana mai aveva dato un bacio a qualcuno. Sempre carina e gentile con tutti, ma baci- mai. «Rouge!», aveva gridato Carlus, «Un altro Pernod, per favore.» Rossana se l’era presa comoda, perché stava servendo gente con le giacche di velluto e quando gli aveva portato il Pernod, gli aveva sussurrato all’orecchio «Sei l’unico che me lo chiede per favore, non smettere mai.» E prima che Carlus potesse dire qualcosa, lei gli aveva già stampato in bocca un bel bacio a culo di gallina. Carlus era avvampato del rouge di Rossana e aveva tenuto lo sguardo basso, anche se sapeva che le voci del Lapin si erano abbassate di qualche ottava. Per il resto della serata il Pernod glielo aveva versato Père Léon (Rossana si doveva essere presa una bella strigliata) e Carlus se ne era andato prima degli altri.

Di lui nessuno sapeva niente. Aveva quei baffoni chiari e il nome dell’est. Stava tutto il santo giorno piegato nella sua Renault AG e quando scendeva per prendere gli indirizzi sembrava un orso che esce dalla grotta. Pareva che ne uscisse malvolentieri, come se scendere quel singolo gradino significasse scontrarsi con qualcosa di troppo grande, come se ogni passo compiuto al di fuori della Renault comportasse una minaccia. I martedì e i giovedì sera si forzava ad andare con gli altri al Lapin, rideva a qualche battuta, ma per il resto stava zitto. Qualche anno prima Benjamin gli aveva detto: «Aè Carlus! Ma non ce l’hai una famiglia?» Carlus aveva messo giù il Pernod e gli si era avvicinato a tanto così dalla faccia, che Benjamin poteva sentire i baffi di Carlus solleticargli il naso. «E tu?», gli aveva detto Carlus. Ma non era una vera domanda. Benjamin aveva farfugliato qualcosa, ma vedendo Carlus immobile, aveva preferito rimanere zitto. Da allora nessuno gli aveva più domandato niente.

Quel giorno, dopo il bacio di Rossana, poteva sentire parlottare i colleghi. Non solo alla stazione di Saint-Sulpice, ma anche a Madeleine e Opéra, dove c’era poco tempo per le chiacchiere. Benjamin, al centro del capannello, l’aveva salutato da lontano e gli aveva gridato: «Aè Carlus! Come si dice? Tetto arrugginito, cantina bagnata!» Carlus non aveva capito la battuta (non essendo uomo di spirito) e aveva preso una chiamata per il maquis. All’incrocio tra Cléry e Sentier, l’aveva poi capita, ma era troppo tardi per tornare indietro e spaccargli il grugno. Si fermò fuori dall’indirizzo di consegna e dopo qualche minuto scese una coppia in ghingheri da un palazzo bianco con le colonne di marmo. «Dove?», chiese Carlus. Si accorse che la signora stava piangendo. «Agli Invalides», disse lei e aggiunse, mentre la Renault si metteva in movimento «Non deve andare lì anche lei?». «Pardon, madame?», disse Carlus, convinto di avere capito male. «Andiamo a salutare il nostro Charlie, lo mandano a Meaux. Questa mattina il Generale Gallieni ha dato l’ordine per radio e ha convocato agli Invalides tutti i Taxi di Parigi e i cadetti dell’École Militaire.», disse lei tra i singhiozzi. L’uomo al suo fianco, molto più anziano, la consolò blandamente con qualche «Allez Marie, allez..» e dei buffetti sul ginocchio. Carlus storse il naso. Cosa c’entravano i tassisti con le reclute?

Già a metà di Avenue de Breteuil iniziava una colonna di Renault che cercavano di accedere alla piazza. Tre giorni prima un aereo tedesco aveva gettato una bomba e un pacco di volantini che invitavano alla resa incondizionata di Parigi. La voragine rallentava il traffico. «La prego, faccia in fretta. Dobbiamo salutare il nostro Charlie», mugugnò lei. Carlus spense il motore e scese dalla vettura. Vide tra la folla Philippe, l’unico dei colleghi che era un coglione. «Aè Philippe!», «Salut Car!», rispose quello, accendendosi una sigaretta e sbuffando il fumo contro il tettuccio nero della sua AG9. Carlus si tirò su i calzoni con entrambe le mani e gli si fece vicino allungandogli il fiaschetto di acquavite «Che si dice?». Philippe si passò la manica sulla bocca e mandò giù una sorsata «Ma che ne so. Me l’hanno detto solo dieci minuti fa. Fortuna che ero qui intorno. C’entra l’esercito». Carlus annuì gravemente e riprese la fiaschetta. «Bien, Philippe.»

La coppia lo guardava famelica. «Niente signori. Dovremo attendere. È solo un ingorgo.» La signora scoppiò in un gridolino e si rituffò sotto l’ala del marito. «Allez Marie, allez..»

Un’ora dopo, 1200 taxi della compagnia “G-7” erano radunati su place Vauban, di fronte alla cupola dorata di Saint-Louis-des-Invalides. Saranno state le 19 e il sole stava lentamente calando sulla tomba di Napoleone custodita nella cattedrale. A Carlus quella piazza era sempre piaciuta, non tanto per l’architettura (di cui non poteva certo dirsi esperto), ma per le lunghe file di cannoni rivolti verso l’Eliseo; La Francia è il popolo sovrano e non stenterà a rimetter mano alle armi!

Si guardò intorno. Di fronte a loro, sulla scalinata di Saint-Louis, stavano facendo il loro ingresso una decina di vecchi generali, tirati a lucido per una battaglia che altri avrebbe combattuto al posto loro. Ma delle reclute neanche l’ombra: solo quella distesa di Renault a perdita d’occhio e i loro autisti, innervositi per il pomeriggio di lavoro bruciato.

Uno dei vecchi militari, il più grasso, guadagnò la posizione centrale e si schiarì la voce. In testa aveva un cappello grande come una foca e un ridicolo pennacchio bianco. «Citoyens des Paris», esordì. «Gentili dipendenti della G-7», fece una lunga pausa in attesa che la piazza si chetasse. «Non spetta certo a me spiegarvi come stanno le cose. Violando ogni accordo internazionale, i tedeschi hanno raggiunto le porte della città, marciando su Bruxelles e sul Lussemburgo, trovandoci sguarniti sul fronte nord-orientale. La caduta di Parigi è imminente. Il 4° corpo del Generale Boëlle è partito questa mattina per venire in soccorso a Joffre, ma non basterà.», tra la folla corse un brusio «E noi che c’entriamo?», gridò un tassista alle spalle di Carlus. «Dove sono i nostri ragazzi?», si accodò la donna che Carlus aveva condotto agli Invalides insieme al marito. Il generale attese che le grida si esaurissero. «Entro l’alba, 4000 soldati dovranno essere trasportati sulla linea del fronte occidentale, a Meaux. Si tratta della settima divisione di fanteria che è di stanza a Livry-sur-Seine.», la madre di Charlie scoppiò in lacrime irrefrenabili. «Con effetto immediato, le vostre vetture, insieme alla vostra persona, sono requisiti.», boato della folla. «Raggiungerete Livry,  ognuno di voi caricherà a bordo cinque soldati e ripartirete immediatamente per Meaux.», aggiunse il vecchio bacucco senza che nessuno potesse sentirlo, tanto era sommerso dalle urla. «Chi ce lo paga il carburante, tu?», «Livry è a sud, Meaux a nord! Ci vorrà tutta la notte!» e ancora «Abbiamo famiglia, noialtri, coglione!».

Il generale fece finta di non aver sentito, anche se in volto era paonazzo. «Ascoltate! Là fuori i vostri ragazzi stanno morendo per impedire che la capitale cada in mani nemiche. Sta per cominciare la battaglia che deciderà le sorti della Francia, ognuno ricordi che non è più tempo di pensare al proprio, ma che tutte le energie devono essere concentrate nell’attaccare e cacciare il nemico, a tenere le posizioni conquistate e a morire, piuttosto che cedere.» e con questo ridiscese la scalinata insieme agli altri vecchi, sfilando a margine della folla, scortati da due file di soldati.

«Che cazzo», bofonchiò Carlus facendosi largo tra la folla verso la sua auto.

Le macchine si somigliavano tutte. Per qualche minuto Carlus, come altri colleghi, ebbe la netta sensazione che ci sarebbero voluti giorni prima che ognuno ritrovasse la propria. Mentre stava salendo sul predellino di una Renault in tutto e per tutto uguale alla sua, una mano lo acchiappò per il panciotto blu fornitogli dalla “G-7”. Carlus non era abituato a sentirsi toccare e ogni volta che accadeva sentiva un brivido corrergli lungo le braccia. Si voltò di scatto e «Monsieur,» vide che la mano aggrappata alla sua divisa era quella di Madame Marie. «Monsieur, lei va a Livry?». Come se avesse scelta. Però rispose «Devo lavorare.» «Dunque non va?» Sebbene odiasse le lagne femminili e non fosse in grado di sostenerne il pianto, c’era qualcosa in quella donna che lo muoveva profondamente. «Monsieur. Lei è un uomo buono. So che farà il suo dovere» Carlus volse lo sguardo senza dire nulla, mentre intorno a loro un torrente di persone tornava verso la Breteuil «Stia a sentire madame, io…» «Lei è un uomo buono», ripeté lei e gli si avvicinò ancora, senza mai mollare la presa dal panciotto «trovi il mio Charlie. Gli dia questo». La donna infilò a forza una scatolina di latta nel pugno di Carlus, rapidamente, come fanno i maghi. «Per favore.» Carlus rimase inebetito, senza saper bene che fare o dire, come gli era capitato solo poche ore prima al Lapin con Rossana. «Lo farà.» concluse la donna senza staccargli di dosso gli occhi lucidi. «Charles Bonnet». «Charles Bonnet», ripeté Carlus, senza sapersene spiegare il perché né allora, né in seguito. La donna si lasciò risucchiare dalla folla, sbattendo come un lenzuolo tra i tassisti.


Fino al diciottesimo secolo, per errori di navigazione, decine di isole vennero segnate sulle carte geografiche di tutto il mondo. L’isola di Pepys, ad esempio, si credeva situata 230 miglia a nord delle Falkland, oppure Sandy Island nel Mar dei Coralli in Nuova Caledonia. Vengono definite “isole fantasma” poichè non sono mai esistite. Banchi di nebbia, illusioni ottiche ed erronee identificazioni di iceberg hanno per secoli portato ad accreditarle come reali e a segnarle sulle mappe del vecchio e del nuovo mondo. Discusse nei parlamenti e nei ministeri della marina, centinaia di uomini sono morti alla ricerca di questi abbagli, smarrendosi per mare, in viaggi che li hanno portati per anni lontano da casa. Migliaia di giorni trascorsi nella speranza di avvistarli in lontananza, pezzi di terra vergini e immacolati, ultimi misteri da risolvere in un mondo che per l’uomo non aveva più segreti. E poi la morte, persi nel piatto labirinto dell’oceano.


Per fortuna il viaggio verso Livry poteva avvenire in autonomia. Con i cadetti a bordo, invece, avrebbero raggiunto Meaux in una lunga carovana.

La strada per Livry era disastrata e Carlus temeva che le ruote della AG avrebbero ceduto lungo i fossi che costeggiano la Senna, ma alla fine raggiunse la caserma indenne. Decine di file di reclute attendevano i loro traghettatori, illuminati dalla luce violacea del tramonto. Avevano i volti tristi e stanchi. Avranno avuto tutti intorno ai vent’anni e dalle macchie di fango sugli scarponi e sulle ghette grigie, Carlus intuì che arrivassero da un’ estenuante marcia forzata. Guardavano il taxi di Carlus, a dispetto dei loro corpi stravolti, con meraviglia ed eccitazione. Nessuno di loro, all’infuori di qualche luogotenente, era mai salito su un’automobile. Carlus accostò vicino a un capitano di fanteria dalla faccia di corvo. «Taxi G-7. Dove…», ma venne subito interrotto da quello, che sollevò il braccio verso l’ala ovest del comprensorio. Davanti a un cancello in ferro battuto stava un tavolo da falegname e tutto intorno dei soldati piegati su una lunga pergamena che lo copriva da lato a lato. Carlus fermò l’automobile e ne discese con uno sbuffo. Si avvicinò al tavolo tirandosi su i pantaloni. «Buonasera.» Gli uomini intorno al tavolo sollevarono lo sguardo e il più alto di grado gli domandò il numero di targa, sebbene fosse ben visibile di fronte a loro. «878-E6», disse Carlus, già ampiamente spazientito dai modi glaciali dei militari. Il più alto di grado, che aveva la fronte da caprone, scorse il dito pulito di chi non ha lavorato un minuto in vita sua lungo la pergamena, poi, senza guardare Carlus disse: «Durand, Mercier, Brun e Leclercq.» Spiazzato dal tono del caprone, fece per tornare alla macchina, ma a metà strada la scatola di latta che aveva nel panciotto scosse tintinnando il suo contenuto. Carlus allora si fermò, sospirò e tornò con passo pesante al tavolo. «Mi domandavo, gentile signore, se avessi potuto caricare io Bonnet.» Gli uomini sollevarono ancora una volta lo sguardo sull’uomo-orso. «Perchè?», domandò il caprone. «Sono un parente. In effetti Charles è mio nipote. Mi piacerebbe…» «Niente Bonnet. Mi scombina tutti gli ordini. Ha i suoi nomi, prenda i ragazzi e si metta in fila sulla provinciale. È tutto.», lo interruppe il più alto di grado e le teste dei militari tornarono sul tavolo. «Grazie», disse Carlus tornando al taxi. Fece inversione e tornò al plotone. Intanto si erano già radunate altre Renault in cerca di ordini. Carlus fermò il motore, si sporse oltre il volante e, guardando a casaccio tra i ragazzini, disse: «Durand, Mercier, Brun e Leclercq. In sella ragazzi.» Quattro divise si alzarono in maniera sparsa e si avviarono senza fretta, zaino e moschetto in spalla, alla AG di Carlus. Fatto il saluto militare al conducente dai lunghi baffoni, entrarono nella vettura con reverenza, senza dire una parola, come se stessero varcando le porte di Notre Dame. «Comodi ragazzi», disse Carlus prendendo la manovella di avviamento, ma mentre scendeva dalla Renault per infilarla sotto il frontalino, sentì qualcuno chiamare altri quattro cadetti. «Blanchard, Gautier, Bonnet e Lemaire!». Carlus si voltò di scatto verso una Renault che era appena arrivata sullo spiazzo di fronte alla caserma. Al posto di guida, un volto conosciuto. Era Philippe, che con un braccio disteso sul volante reggeva il fiaschietto di acquavite. «Aè Philippe!», gridò con un sorriso Carlus. «Eccolo là!», rispose Philippe. Carlus spense nuovamente il motore e si avvicinò alla vettura del collega, abbracciandosi a una delle lanterne.

«Che si dice?»

«Ci mancava solo questa.»

«Già», disse soltanto Carlus. Poi «Tu hai un Bonnet a bordo?»

«Sì, lo conosci?»

«È mio nipote.»

«Caspita Car! Non sapevo avessi un nipote!»

Carlus si sporse ancora verso Philippe. «Senti, Philippe. Non è che lo faresti portare a me il ragazzo? Sua madre è mia sorella.»

«Accidenti Car, non lo so. Se ci scoprono mi puzza di guai.»

«Non lo scoprirà nessuno, mon frère. Tanto ci dobbiamo andare tutti a Meaux.» e così dicendo Carlus gli allungò un sigaro buono, di quelli che teneva di scorta per i poliziotti di Pigalle.

Philippe esitò un attimo, poi si volse ai ragazzi. «Bonnet, tu vai con lui.» e a Carlus «Dammene uno che non chiacchieri troppo.»

Nell’arco di un’ora, tutti i taxi erano in fila, pronti per partire. Carlus girava intorno alla macchina fumando la pipa e osservava l’apparato militare scattare come un’orologio. Era chiaro che avevano tutti poco tempo da perdere. Ogni tanto Carlus buttava un occhio fugace verso i ragazzi, che parlottavano animatamente tra di loro. Charlie invece stava zitto. Gli altri tre non si potevano certamente dire dei bei giovanotti. Avevano i lineamenti molto marcati della provincia, le voci gracchianti e le gambe storte di chi ha preso in mano la vanga prima di imparare a tagliare il pane. Charlie no. Era un giovane in forma, sportivo. Aveva gli occhi svegli e il portamento fiero di chi dalla vita ha poco da temere. Generalmente Carlus aveva antipatia per i figli dei ricchi, ma c’era qualcosa nel ragazzo che gli ispirava solidità e al tempo stesso una certa noncuranza. Gli occhi blu scintillavano come se dovesse commuoversi da un momento all’altro e il naso pareva portare tutto il corpo in una direzione precisa, sempre avanti a sé.

«En marche!» Al grido del capitano di colonna, milleduecento manovelle girarono, creando un enorme ruggito. Gli otto cavalli della AG scalpitarono come quelli dell’ippodromo sulla linea di partenza e Carlus si sedette al posto di guida. «Charlie!», gridò verso il retro «Vieni qua davanti a tenermi compagnia.» Il ragazzo, come se non avesse aspettato altro, fece un balzo oltre la poltrona anteriore e prese posto vicino a Carlus. «Bravo ragazzo», disse questi e la colonna lentamente si mise in marcia. C’era nell’aria un’eccitazione palpabile, come se non loro soltanto, ma anche la natura intorno fosse cosciente dell’impresa che si apprestavano a compiere.

Poco dopo la partenza, Carlus tese un orecchio alle retrovie per cogliere le chiacchiere dei tre campagnoli. Si trattava per lo più di battute da caserma, ma in breve i tre abbassarono il tono della voce per commentare fantomatici aneddoti dal fronte. A quanto pareva tra le prime linee regnava lo sconforto per la netta supremazia germanica. Molti ragazzi di debole fibra, tra cui un tale Sanchez, figlio di immigrati spagnoli, abbandonavano le proprie postazioni, colti da terrore irrefrenabile. I generali francesi erano in questi casi obbligati a tenere alto lo spirito della compagnia. Nel caso di Sanchez, un anziano generale lo prese per la collottola, trascinandolo al centro delle file di commilitoni e, puntandogli la pistola alla fronte disse «Anche questo è un modo di morire per la Francia.»  Charlie era sbiancato in volto e fissava il tubo di scappamento della AG che li precedeva. «Charlie?», provò a dirgli Carlus. Il ragazzo non distolse lo sguardo, ma disse: «Dovremo rotolarci nel fango come i porci». Carlus rimase in silenzio. «Con i pantaloni rossi di ordinanza ci faranno fuori tutti alla prima carica. Se ci rotoliamo nel fango avremo qualche possibilità di mimetizzarci.» A sentire quelle parole, anche i tre campagnoli chetarono i discorsi e per un po’ nessuno fiatò.

Molti ragazzi intanto si erano già addormentati nei taxi. Capitava spesso che la carovana incontrasse dei passanti che, incuriositi da quelle vetture stracolme di giovani dormienti, chiedessero: «Feriti?» e i tassisti rispondessero: «No. Settima divisione. Partiti da Parigi verso il fronte.» Presto anche Durand, Brun e Mercier si stancarono di discorrere e, appoggiate le teste sulle reciproche spalle, chiusero gli occhi al sonno, consci che sarebbero stati gli ultimi momenti di riposo prima dell’inferno. Charlie invece stava lì, muto e con gli occhi lucidi, a contemplare la Francia che scorreva come pioggia lungo la Renault. A Carlus parve un buon momento. Una mano abbandonò il volante per cercare la scatola di latta nel panciotto, la estrasse e la posò in grembo al ragazzo. Charlie sgranò gli occhi.

«Come fa ad averla?»

«Qualche ora fa ho dato un passaggio ai tuoi genitori. Quando tua madre ha saputo che avrei fatto parte della carovana per Meaux, mi ha pregato di dartela.»

Le mani di Charlie tremarono intorno alla scatola, colte dall’impulso irrefrenabile di aprirla, ma non lo fecero.

«Che cos’è?», domandò Carlus. Charlie aspettò molto prima di rispondere, passandosi rapidamente le dita sugli occhi, poi voltò la testa verso la campagna e non rispose. A Carlus non parve opportuno insistere. Solo qualche minuto più tardi, Charlie aprì la scatola e ne estrasse un tubo di bronzo.

«È un cannocchiale.»

Colto di sorpresa, Carlus lanciò un occhiata all’oggetto e annuì con un mormorio.

«Era di mio padre. Era un generale di marina, un esploratore.»

«Avevo immaginato che fosse un pezzo grosso, ragazzo. I grandi uomini…»

«Quello che ha visto Lei non era mio padre. Mio padre è morto per mare.»

«Ah.»

«Ha trascorso la vita alla caccia di un’isola.»

«Di un’isola?», domandò incuriosito Carlus.

«Un’isola dell’Atlantico: Frislanda.» Charlie si tirò a sedere dritto e parlò a Carlus guardando fisso quello strano oggetto, come cercando le battute di un copione contenuto tra le lenti del cannocchiale, accarezzandolo con una dolcezza che colpì il tassista. «Due veneziani nel ‘400 la segnarono sulle mappe di mezzo mondo e da allora sono state compiute centinaia di spedizioni per trovarla. Mio padre aveva ricevuto l’ordine direttamente dal Maresciallo Perrin affinché fosse la Francia a negarne definitivamente l’esistenza. Alla quarta spedizione, la nave di mio padre è andata persa e non se n’è più saputo nulla.»

La mente di Carlus volò verso le isole fantasma. Le sue Frislanda. Distrutte, affondate, o mai esistite. Quante spedizioni aveva fatto per ritrovarle. Quanti vascelli si erano persi nella ricerca, quanti naufragi e orfani lasciati sulla terra ferma. Per un attimo pensò di parlarne a Charlie. «Mi dispiace ragazzo.», ma Charlie aveva chiuso gli occhi e respirava a mascelle serrate con la testa appoggiata all’indietro. «Non è colpa Vostra.», disse poi, piano, come in sogno.


I campi brillavano sotto la luna come mille collane di perle spezzate e il fumo della pipa di Carlus formava mulinelli che si confondevano con la via lattea. Il motore scoppiettante della AG rompeva il silenzio in un’armonia che in qualche modo lo adagiava nel paesaggio.

I quattro ragazzi dormivano il sonno che accompagna i bambini alle grandi avventure delle gite scolastiche. Ogni tanto Carlus si voltava a guardare Charlie, la testa appoggiata all’indietro e le mani avvinghiate intorno alla scatola di latta. Carlus cercava in tutti i modi di evitare le buche per non svegliarli, ma anche volendo sarebbe stata un’impresa destinata a fallire. Solo a un certo punto, nonostante la monotonia della retta che percorrevano, Charlie diede un gran calcione al cruscotto e si tirò tutto insieme come certi pupazzetti, ma neanche si accorse che la macchina correva solitaria attraverso il cuore della Francia e subito si riaddormentò. Il vento gli accarezzava il volto, muovendogli i capelli sulla fronte e sulle orecchie, soffiando delicatamente come fanno gli innamorati.

Attraversavano la Francia, sì, ma non nella direzione prevista.

Qualche ora prima, quando mancavano ormai pochi chilometri a Meaux,  Carlus aveva spento gli abbaglianti della Renault e aveva dato una brusca sterzata a destra, immettendosi in un attimo su una stradina che si addentrava nei boschi di Nanteuil. Col cuore in gola e con il terrore che i ragazzi si svegliassero o che qualcuno della batteria si accorgesse della sua deviazione, Carlus seguì per Reims, costeggiando metro per metro la Marna. Ma anche a Reims non abbandonò lo sterrato. Non aveva un piano preciso, per il momento la cosa più sensata da fare sembrava seguire il fiume. Mancavano due ore all’alba e non sarebbe più stato protetto dal buio, i ragazzi si sarebbero svegliati e si sarebbero accorti di essere stati messi in un terribile guaio contro la loro volontà. Questo pensava Carlus, mentre l’automobile viaggiava nei solchi lasciati sulla via dai carretti degli agricoltori.

Poi la Marna finì. La strada che Carlus aveva seguito per più di cento chilometri raggiunse un punto morto. Carlus fermò l’auto, spense il motore e allungò una mano verso il portaoggetti, dal quale estrasse una mappa. Scese dalla Renault con un rantolo soffiato, il culo rattrappito dal lungo viaggio e i muscoli delle gambe bloccati. Fece qualche giro intorno alla macchina per rimettere in moto il sangue, poi stese la mappa sulla pietraglia. Con un ditone seguì tutta la lunghezza dalla Marna, dalla foce della Senna fino al distretto di Digione, dove si trovavano adesso. Nel mezzo del nulla, ad angolo retto, il percorso del fiume veniva bruscamente interrotto da una diga.

Dall’automobile lo raggiunse il suono di uno sbadiglio. Carlus serrò gli occhi in attesa delle urla. «Porca puttana! Ma dove siamo finiti?» «Dov’è il vecchio?» In un attimo tutti e quattro si erano gettati fuori dalla Renault in preda al panico. Durand gli si fece addosso per primo, lanciandoglisi al collo a denti stretti. «Dove cazzo ci hai portati?», gli sibilò in faccia. Brun lo prese per il panciotto, strappandone una tasca. «Perché l’hai fatto? Perché?!» Era fuori di sé dalla rabbia. E mentre allo sfogo dei due si aggiungeva Mercier, che minacciava di spaccare il muso a Carlus se non lo avessero tenuto fermo, Charlie era rimasto alle loro spalle, in maniche di camicia, a fissare negli occhi il tassista, in un modo che questi non riusciva a decifrare. Carlus non reagiva alle botte dei tre contadini, né rispondeva alle loro domande, poiché ancora non aveva avuto il tempo per riflettere egli stesso sulle ragioni che li avevano portati a sei ore di viaggio da Meaux. Guardava Charlie e con gli occhi lo implorava di fermarli, di dargli modo di riprendere fiato e di parlare. Ma quello scomparì dentro la macchina e ne riuscì con lo zaino in spalla e il moschetto tra le braccia. Per un attimo Carlus pensò che lo volesse fucilare. Poi Charlie si avvicinò a raccogliere la mappa da terra e cominciò a studiarla, mentre i tre commilitoni continuavano a percuotere Carlus. Quello intanto piangeva, soffocava sotto i vigorosi cazzotti dei ragazzi, coperto dai loro sputi e dai loro insulti. «Ci hai fottuti, bastardo!» «Siamo spacciati. Non ne usciremo vivi per colpa tua!» «Che ti credevi di fare, figlio di cagna!» Poi Charlie si risollevò, piegò con calma la cartina e si infilò la giacca. Con un gran fischio destò tutta la compagnia, che arrestò di botto le percosse. Carlus era in terra, livido e grondante sangue, con gli abiti logori e strappati. Aveva le costole rotte e faticava a star dritto.

«Io non so voi, ma la situazione è già abbastanza brutta per macchiarsi di omicidio. Possiamo metterci in marcia adesso e raggiungere il fronte entro il tramonto. Rischiamo l’esecuzione immediata per diserzione, ma forse, vedendoci tornare, il generale ci crederà e ci butterà in prima linea dove, con ogni probabilità, moriremo comunque. Oppure possiamo continuare a camminare e cercare di lasciare il paese. Se andiamo a sud, la Saona confluisce nel Rodano e raggiunge Lione. A nord, invece, ci porta a Nancy, vicino al confine con la Germania- opzione da scartare. Dritto davanti a noi c’è la Svizzera.» Fece una pausa grave, scrutando i suoi compagni uno per uno negli occhi. «In ogni caso ci muoveremo insieme e abbiamo poco tempo. Quindi zaini in spalla e prendiamo una decisione.» I tre erano visibilmente spiazzati dal tono di Charlie, ma istintivamente ubbidirono. In breve si trovarono a fare capannello vicino alla Renault, ma Carlus non poteva udire cosa dicessero. Sollevò con fatica un braccio tremante, puntando il dito sporco di sangue verso la Renault. Rantolava qualcosa che i quattro ragazzi non compresero, ma che bastò ad attirare la loro attenzione. “Che vuoi vecchio? Avete già fatto abbastanza danni, tu e la tua macchina di merda”, disse Mercier allontanandosi. Scomparvero in una direzione che Carlus non poté vedere, lì steso a terra, con il braccio ancora a mezz’aria che puntava verso la ruota anteriore della Renault, oltre la Renault un’isola d’alberi in mezzo ai campi, e oltre l’isola, la Svizzera.

Il Piano Schlieffen prevedeva la vittoria dell’Impero Tedesco entro le prime sei settimane a partire dal 28 luglio 1914. Il 2 agosto le truppe germaniche marciano sul neutrale Belgio e invadono le frontiere francesi, colte di sorpresa e sguarnite. Il governo si trasferisce a Bordeaux, al seguito di un milione di sfollati (tra cui Proust). Alla base della Tourre Eiffel viene chiesto al popolo francese di deporre una “tassa sulle demolizioni”. Il 5 settembre ha inizio la prima battaglia della Marna (che deve il suo nome all’omonimo fiume, principale affluente della Senna, che copre l’intera regione di Nanteuil). Due giorni più tardi, i tedeschi si trovano a 50 km dalla capitale e la sconfitta pare ineluttabile. Il 7 settembre il governatore di Parigi, Generale Gallieni, sequestra 1200 vetture della compagnia di taxi G-7 per trasportare nella notte 4000 soldati sulla linea di Meaux. Il 12 settembre la Francia, con un cospicuo aiuto della Gran Bretagna, vince la battaglia, che lascia sul campo 500.000 morti e riapre il conflitto mondiale. Seppure oggi venga messo in dubbio che l’episodio dei taxi sia stato effettivamente determinante per le sorti dello scontro, ogni anno Parigi si ferma per ricordare il passaggio dei cosiddetti “Taxi de la Marne” attraverso gli Champs Elysées, in quanto estremo simbolo per la partecipazione civile alla difesa nazionale.

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