la patente

«A dicembre ti lascio la macchina.»

Intende la Mazda. Una grossa supposta verde parcheggiata nel cortile, sotto il sole.

Non si aspetta veramente che io gli risponda, litigheremmo per ore.

Annuisco e guardo per terra.

«Potresti prendere la patente quest’estate. Hai detto che hai tempo, no?»

«Ho detto che avrei avuto tempo di venirvi a trovare.»

«Beh, una cosa non esclude l’altra» taglia corto nonno. Mi tocca il ginocchio e si alza. «Via, andiamo a farci un giretto.»

Intende che devo guidare io. Perché la cosa che lo manda ai matti è che io la macchina la so pure guidare. Me l’ha insegnato lui. Ogni estate, da quando le mie gambe erano abbastanza lunghe da raggiungere i pedali. Facevamo infinite scorribande sui colli di Volterra, subito dopo pranzo, quando faceva caldo e la gente riposava. Era il suo contributo alla mia educazione. Adesso, a ventotto anni e senza patente, per lui rimango un ragazzino.

Mi alzo e lo seguo. Fa già caldo, anche se è solo marzo. Di fatto, il «giretto» è sempre stato una scusa per uscire di casa.

Qualche anno fa mio nonno ha rischiato di morire.

Il giorno del suo compleanno lui e nonna dovevano venire a pranzo da noi. Quando hanno citofonato sono sceso ad aprire. Mi si è gelato il sangue. Nonno era completamente giallo. Come un Simpson.

La mattina seguente ha fatto le analisi e qualche giorno più tardi abbiamo scoperto che aveva un tumore al fegato con una metastasi sulla testa del pancreas. È stato ricoverato al San Giuseppe.

I medici ci hanno detto che non c’erano molte possibilità che sopravvivesse all’intervento, perché dovevano fargli l’anestesia totale. Se pure fosse sopravvissuto all’operazione, avrebbe potuto non risvegliarsi, oppure, se anche si fosse svegliato, avrebbe potuto non riconoscerci.

La mattina dell’operazione un’infermiera ci ha annunciato che potevamo entrare a salutarlo, uno per volta.

Sono rimasto dentro pochi minuti. Mi sono seduto sul bordo del letto, lui mi ha preso la mano tra le sue e ha fatto un gran sospiro. Ho creduto che non avesse nulla da dirmi. Guardava fuori dalla finestra, con gli occhi opachi e stanchi. Poi mi ha fissato e mi ha detto:

«Ricordati che nella vita l’unica cosa che conta è che quando ti svegli la mattina… e ti fai la barba,» si è sfiorato la guancia con un dito «tu sia a posto con la tua coscienza».

«Sì, nonno» ho detto tra le lacrime.

«Vai ora.»

L’ho guardato a lungo, conscio che avrebbe potuto essere l’ultima volta, poi mi sono alzato e sono andato alla porta.

«Giulio.»

«Sì, nonno.»

«Prendi la patente.»

«Sì, nonno.» Conoscendolo, avrei potuto pensare che fosse stata tutta una messa in scena. Che avesse pagato medici e infermieri, l’intero sistema sanitario milanese, pur di strapparmi quella promessa.


Nonno è stato direttore commerciale dell’Alfa Romeo e presidente della Bmw in Italia. Il desiderio che suo nipote guidi una macchina quindi ha ragioni del tutto personali. Anche mia mamma vuole che io prenda la patente. Per lei l’automobile è stata il simbolo della sua emancipazione. A mia mamma però, che io guidi o meno, importa poco. Nonno invece è un ingegnere. Il termine stesso, ingegnere, mi mette in soggezione da quando ero bambino. Lo chiamavano così le donne di servizio, con riverenza. E non solo quando si rivolgevano a lui, ma anche quando parlavano con me. «Fai piano, l’Ingegnere dorme.»

Non era «tuo nonno», era l’Ingegnere. Lo chiamavano Ingegnere come gli italiani parlano dell’Avvocato per dire Agnelli.

Nonno da me si aspettava due cose: che diventassi a mia volta un ingegnere e che mi appassionassi ai motori. Glielo leggevo negli occhi, quando veniva a cercarmi nell’orto e mi diceva: «Vieni, si va a fare un lavoretto».

I «lavoretti» erano la manutenzione della casa. Controllare la pressione della caldaia, riparare guasti agli elettrodomestici o alle condutture idriche. Me lo diceva con fare da duro, per dare serietà alla cosa. «Mettiti il berretto» diceva, o «infilati i pantaloni lunghi». E così sembrava che andassimo a fare cose pericolose e delicatissime. Cose da uomini. A volte si sfilava l’orologio, un vecchio Seiko delle frecce tricolore, e me lo legava al polso. «Questo è un orologio da ingegnere» mi sorrideva, facendo l’occhiolino. Mi sentivo subito più intelligente, con il Seiko.

Poi, mentre lui faceva quello che doveva fare e io lo assistevo, mi spiegava quello che non andava. Cercava di rendermi comprensibili tutti i passaggi e ogni tanto mi chiedeva aiuto. Io gli passavo le viti o gli asciugavo la fronte come si fa ai chirurghi. Mi appassionava l’atmosfera che si creava, l’avventura di calarci dentro al ripostiglio sotterraneo dove stava la caldaia. Per quanto mi sforzassi di seguirlo, tuttavia, i processi che avevano portato all’inceppamento di un condensatore mi importavano poco.

Nonno sognava di farsi scarrozzare, un giorno, dal suo unico nipote su e giù per le colline toscane, disquisendo delle ultime scoperte sulla termodinamica, sulle particelle elementari o che so io.

Che non sarei diventato un ingegnere si era capito quasi subito. Nei primi anni di liceo aveva anche provato a darmi ripetizioni di matematica e di fisica. Riempiva pagine intere di schemi e di appunti precisissimi, con penne di colori diversi, linee tirate col righello, asterischi e note a piè di pagina. Ma era tempo sprecato. I numeri non mi entravano in testa. Se ancora nutriva la speranza che gli potessi somigliare in qualcosa, rimaneva una sola opzione: che mi appassionassi alle automobili.

Non so neanche dire come mai non presi la patente subito, appena compiuti i diciott’anni. Forse semplicemente perché sono cresciuto a Milano e a Milano ci si muove bene in bici. Amavo la mia bicicletta.

Con i miei amici il sabato mattina montavamo sul sellino e ci lanciavamo in lunghe pedalate sulla ciclabile della Martesana, a volte fino a sera inoltrata. In primavera l’hinterland ci appariva come una meta esotica. Trucazzano, Gorgonzola, Lodi, ci accoglievano come luoghi di un altro mondo. Eravamo felici e spensierati, i piedi sempre sui pedali.

Uno dei grandi crucci dei patentati che mi circondavano, invece, erano le ragazze. «Come la vai a prendere la Marta?» «In bici» rispondevo. Marta era il mio primo amore del liceo. Era alta qualche centimetro più di me e aveva i fianchi larghi. Viveva dall’altra parte della città, in piazzale Bande Nere, e da casa mia, pedalando a tutto gas, ci mettevo quasi un’ora. Dopo scuola la andavo a prendere fuori dal suo liceo, la caricavo sulla canna e andavamo in giro per Milano. A ripensarci, dovevamo essere molto buffi insieme, perché ogni volta che raggiungevamo i nostri amici, mi vedevano arrancare, paonazzo in volto e sudatissimo, con quell’amazzone tra sellino e manubrio.

In bici potevo andare ovunque e più in fretta che con qualsiasi altro mezzo. Non dovevo curarmi della ztl, non dovevo cercare parcheggio, non avevo bolli o tasse da pagare. Se pioveva mi mettevo la mantella, se faceva troppo freddo mi cacciavo il giornale sotto il maglione. Certo, patente e macchina sono cose diverse. Uno potrebbe avere la patente senza comprarsi la macchina. Ma io sapevo che non sarebbe stato così per me. Se avessi preso la patente avrei dovuto guidare eccome.

Avrei dovuto guidare per mio nonno.


«Va bene, più dolce sulla frizione. Così.»

Sorride, è felice. Quando guido, mio nonno è contentissimo. Canticchia, pure. Perché quando guido, dimostra a sé stesso che non ha sbagliato niente. Dimostra che, in fondo, sono come lui. Non prendo la patente per fargli un dispetto, ma in verità la macchina ce l’ho nel sangue. Infatti dopo un po’ arriva: «Lo vedi? Lo vedi che è facile?».

«Lo so che è facile» rispondo io.

«E allora?»

«Dài, nonno, per favore.»

«Eh, dai nonno...» sbuffa lui. «Io vorrei sapere che ti costa. Non la vuoi la macchina? A dicembre te la lascio. Tanto non me la rinnovano quest’anno.»

Lo ripete ogni volta da almeno dieci anni, ma poi gliela rinnovano sempre. Nessuno sa come sia possibile. A ottantasette anni non ci sente più da un orecchio e ha una cataratta grande come una moneta da cinquanta centesimi.

Questa volta però è diverso. A dicembre mi sa che gliela tolgono per davvero.

Sono passate solo tre settimane dall’incidente.

Mi aveva chiamato mamma. «Ascolta, è molto meno grave di come sembra, ma i nonni hanno avuto un incidente.» In effetti era molto meno grave di come

sembrava, perché la macchina dei nonni era stata travolta da un tir. Li aveva agganciati al paraurti e se li era trascinati per qualche decina di metri schiacciandoli contro il guard-rail. La macchina era tutta accartocciata, sono dovuti arrivare i pompieri per estrarli dal parabrezza.

Ottantasette anni. Nemmeno un graffio.

Superato lo shock, mentre salivo sul primo treno per Milano, aveva cominciato a insinuarsi in me una timida speranza: che questo incidente (il primo per mio nonno in sessant’anni di guida) potesse stravolgere la visione di nonno sul mio stato di eterno pedone. Che si rendesse conto che la macchina può uccidere. Che in effetti, a piedi, sono molto più al sicuro. Che in strada la tua vita non dipende solo dalla tua attenzione, ma anche dalla disattenzione altrui. Che basta un attimo, un sorpasso azzardato, un sms, un colpo di sonno, una qualsiasi sciocchezza e tu non ci sei più. Che forse, in fondo, la storia della patente non è mai stata una buona idea.

Così pensavo, due ore più tardi, mentre entravo nel loro appartamento in corso Sempione. Nonna era in poltrona a fumare, come se nulla fosse.

«Mi avete fatto prendere una paura.»

«Eh non dirlo a me.»

«Ma quando vi hanno fatti uscire dall’ospedale?»

«Siamo appena tornati a casa.»

Mi guardai intorno. «Nonno?»

«È di là al computer.»

«Vado a salutarlo.»

L’Ingegnere stava seduto alla sua scrivania, col naso incollato allo schermo del pc. Incredibilmente, neanche in questo ci assomigliamo. Io, cresciuto negli anni Duemila, ho un rifiuto sistematico per la rete, gli smartphone e i social network. Lui, classe 1931, va pazzo per qualsiasi ritrovato tecnologico, ma soprattutto, va pazzo per il web. Quando mi aveva chiesto, un paio di anni prima, di aggiungerlo tra gli amici su facebook e io gli avevo risposto che facebook non ce l’avevo, il suo volto si era contratto in un’espressione di totale delusione, di rassegnato disprezzo.

«Nonno.» Niente. Come fanno a rinnovargliela? «Nonno!» dissi più forte.

«Oh, bello. Vieni qui, ti faccio vedere una cosa.» Mi sedetti di fianco a lui. Sullo schermo del computer sfilavano vari modelli di automobili.

«Guarda bella questa» disse puntando il dito ossuto su una vecchia Mazda scalcagnata. Sperai di aver capito male.

«Bella» dissi.

«Non ti piacerebbe questa qui? Poi resta a te.»

«Ma cosa resta a me?»

«La macchina! Ti piace verde?»

«Nonno, sei stato travolto da un camion di dieci metri qualche ora fa.»

Mi guardò come si guarda una vela sgonfia.

«Io non ci vado a piedi al bridge.»

*Questo racconto è stato commissionato da Oblique Studio ed è stato pubblicato sul numero di giugno 2017 di Retabloid

Indietro
Indietro

le isole fantasma

Avanti
Avanti

baruch, il peccato veniale