Uno sguardo che puzza

Da quando è nato non mi era mai capitato di assistere a nulla di simile. Il respiro in affanno, il volto paonazzo, gli occhi iniettati di sangue, le manine si torturavano il corpo, graffiandosi, mentre si piegava su e giu sulle ginocchia, urlando dal profondo dell’anima: “Mamma”. Una scena straziante che è andata avanti almeno mezz’ora - un tempo infinito - mentre io, con il tono di voce più caldo e rilassato di cui disponessi, continuavo a ripetere, nelle pause: “Dopo, la mamma dopo viene”.

Se lo avessi visto fare a un adulto, o anche soltanto a un adolescente, avrei pensato che fosse impazzito, che fosse in preda a un crollo nervoso, al peggiore degli attacchi di panico. Se lo vedo fare a mio figlio, due anni non ancora compiuti, mi dico: “Capricci”.

Capricci è il termine con cui ci spieghiamo molti dei comportamenti ai quali non sappiamo trovare spiegazione. A me ha fatto malissimo assistere a questo strazio, con impotenza, mentre mio figlio si aspettava qualcosa da me che io non ero in grado di dargli. Che io non avevo intenzione di dargli.

Troppe volte, nell’arco di quindici anni, ho riconosciuto quello sguardo smarrito in chi mi stava vicino durante un attacco di panico. Spavento, certo, ma anche e pur sempre accompagnato da un modo distaccato di fare. Un giudizio velato, come di “Esagerato”, come se quel malessere fosse il frutto di un tentativo di attirare l’attenzione su di me. Qualcosa che puzza di privilegio.

Mio figlio, da me, quello sguardo non lo riceverà mai. Questo, stasera, ho capito. Ed è un impegno.

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