Un tempaccio per morire?
Ero in riunione da remoto e riflettevo su una questione del tutto futile guardando fuori dalla finestra. E mentre nelle orecchie proseguiva il ronzio indistinto delle chiacchiere di lavoro, lo sguardo metteva a fuoco un gruppo di persone percosse dal vento e dalla pioggia, i volti sprofondati nel bavero della giacca. Accompagnavano, questa decina di sagome scure, una bara verso il suo luogo di sepoltura. Era la prima volta da quando abitiamo in questa casa che dal mio spicchio di scrivania riuscivo a scorgere delle persone muoversi nel cimitero cattolico, striminzito inquilino del vasto camposanto ebraico.
La riunione è durata quanto la funzione (questo tra l’altro la dice lunga sulla durata di certe call), che si è svolta in queste condizioni inclementi, con questo cielo grigio, con questo vento che spazzava il prato sopra le tombe. Evidentemente chi aveva preparato poche parole ha desistito, anche il prete è sembrato volerla tagliare corta e, una volta calata la bara, il gruppo ha battuto in ritirata verso la chiesa.
Allora ho rivolto lo sguardo verso lo schermo del computer per scoprire che la riunione era finita, che tutti si erano salutati e io manco me ne ero accorto. Davvero non c’è spettacolo più magnetico del dolore. Ho lanciato un ultimo sguardo verso il cimitero, mi è dispiaciuto per quelle persone che non hanno potuto vivere con più serenità un momento tanto triste. D’altronde, se ripenso ai funerali ai quali ho preso parte io, non ricordo che tempo ci fosse. Uno ha altro a cui pensare, in certi casi. Forse oggi è un giorno come ogni altro per morire. E neanche tra i peggiori.
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