Uè, Elon!
Sulla strada verso il lavoro mi sono trovato di fronte una Tesla incerta, alla ricerca di posteggio, probabilmente. Essendo in bicicletta - e in ritardo - la sua esitazione dopo pochi metri mi ha irritato e allora, nel mio collaudato e qui liberissimo milanese, l’ho apostrofata a mezza voce: “Dai Elon, sü de doss!”
Confermando la mia convinzione che il dialetto milanese sia una lingua internazionale, l’autista inchioda e mi fa cenno con la mano di superarlo. Passando di fianco al finestrino, quello mi fa, irritantissimo: “Senti un po’, soltanto perché guido una Tesla non vuol mica dire che sono uno stronzo!”
E qui c’è il gap culturale, perché è evidente che l’amico tedesco non ha familiarità con l’ironia padana, prendendo - come è tipico dei tedeschi - la battuta sul personale e alla lettera.
Non avendo tempo, gli schiocco un sorriso e tiro avanti, ma continuo a rimuginare sullo scambio. In effetti quello si è comprato la macchina perché gli piaceva, mica perché (questo lo posso soltanto presumere) condivide le vedute politiche del fondatore. Epperò è anche vero che un carattere come quello di Musk non possa venire slegato completamente dalla percezione di marca. Quando compri Apple stai comprando anche, in parte, Steve Jobs. Lo stesso vale per Microsoft o, per esempio, per i grandi marchi di moda. Quando i marchi legano tanto del loro percepito a personaggi preponderanti come Elon Musk, è legittimo che il carattere di marca si confonda con quello di un fondatore, di un presidente, di un amministratore delegato, di un direttore creativo, di un testimonial.
Non per giustificare la mia aggressività mattutina, però sì: se compri una Tesla in parte ti stai comprando anche Elon Musk. Trovo persino un po’ naive pretendere il contrario. Il carisma, in marketing, si paga. È una scelta aziendale precisa quella di imporre un volto al marchio. Poi ne si paga le conseguenze, nel bene o nel male.
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