Tutto quel virus

Durante e immediatamente dopo i mesi più tragici del coronavirus, confrontandomi con amici e professionisti dell’editoria, emerse come chiunque stesse scrivendo del lockdown. Chi scriveva stava scrivendo del virus, chi fotografava stava fotografando gli effetti del virus, chi filmava stava filmando le strade svuotate dal virus. Non c’era poi molto altro da fare, altra tematica che reggesse il confronto. Il mio agente, per primo, mi vietò tassativamente di scrivere del virus, me lo ricordo bene. Dunque, non scrissi del virus. Né allora, né in seguito.

Oggi mi domando: ma tutte quelle parole, tutte quelle fotografie, tutti quei fotogrammi, che fine hanno fatto? Che fine ha fatto tutto quel virus? Dovrà esserci un girone speciale dedicato ai dannati che sono riusciti a pubblicare un romanzo sul virus, perché io non l’ho letto. Non è davvero strano? Per molti quel periodo ha rappresentato un momento apicale nella propria esistenza; siamo stati tutti al centro di un evento di portata globale. Eppure. Le arti lo hanno taciuto, questo virus. Perché non avrebbe avuto mercato? Perché non vogliamo ricordare? Eppure per eventi ben più tragici, come ad esempio l’Olocausto, non mi sembra che sia stato risparmiato l’inchiostro. Ci sarà un archivio, da qualche parte, di inediti dal lockdown? Oppure è stato un grande sogno, un grande sogno collettivo.

È un mistero. Davvero un grande mistero.

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