Spettacolarizzare l’inspettacolarizzabile

Di mezzo a tanti demeriti, a Netflix possiamo concedere di avere anche fatto cose buone. Non per ultima, il rilancio del formato documentario.

Chi tra noi potrebbe dire con certezza che, fino a sei anni fa, ci saremmo potuti appassionare a una serie documentario? E non una qualsiasi ma, una fra tutte, quella sul Tour de France. Io per primo, da ciclista appassionato, non potrei metterci la mano sul fuoco. I documentari, prima di Netflix - lo ricordo - erano inchieste giornalistiche o accattivanti incursioni nella vita sessuale dei delfini.

Dopo aver democratizzato il comparto audiovisivo, il secondo step della sfida sembrerebbe essere quello di spettacolarizzare l’inspettacolarizzabile. Vale a dire quello che, per sua natura - quattro ore di corsa su due ruote - fino a ieri non poteva risultare interessante che nei secondi finali. Ci erano già riusciti con la Formula 1, una delle discipline più soporifere mai concepite, ma la velocità e i frequenti scontri si prestavano già molto di più all’uopo di un centinaio di biciclette che arrancano su e giù dalle Alpi.

Eppure oggi il Tour de France ha rivoluzionato il proprio modo di realizzare gli highlights quotidiani, ad esempio, in tutto e per tutto identici a dei trailer di altissima qualità, capaci di raccontare la tappa tra Aurillac e Villeneuve-sur-Lot con la stessa enfasi del nuovo kolossal di Nolan.

E allora: perché no? Ha davvero fatto anche cose buone, Netflix. Avrà appiattito l’estetica cinematografica per l’eternità e seppellito la sala cinematografica nel suo insieme. Ma possiamo negare che abbia anche rilanciato mille altri formati altrimenti invisibili?

E poi sono riusciti a spiegarmi il meccanismo del gioco a squadre nel ciclismo. Sarà mica poco.

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