Se bruciasse la città

Ci ho studiato tre anni, al Centro Sperimentale di Cinematografia. A Roma. Si potrebbe dire con scarsi risultati, non sono stato un buono studente. Tutt’altro. Possedevo soltanto poche delle qualità necessarie a fare di me un bravo attore: alcune strutturali, altre acquisite. Insieme a un poco di talento e spirito di osservazione,  infatti, la strada in questa particolare industria impone una soglia morale particolarmente bassa, poiché amministrata da una periferia malavitosa dei salotti buoni romani. Entrare nelle grazie di questa classe di inetti è indispensabile per far carriera e accaparrarsi un ruolo nei palinsesti, già miseri, delle reti nazionali. Altro che cinema. Ma qui mi sembra di dire l’ovvio, basta accendere la tivù.

Che si insabbi un incendio che ha mandato in cenere 220 pellicole nella Cineteca Nazionale, può stupire soltanto chi il Centro non lo ha mai frequentato. Infondo il loro buon nome è tutto ciò che conta.

Io ho a casa, qui davanti a me, la pizza di un film, sottratta durante una festa a un corridoio della Scuola. Tutto è gestito così, alla buona, lo è sempre stato. Dietro la comunicazione di un polo d’eccellenza, rimane il caos di un’istituzione alla deriva, che i fondi li spende in facciata.

Il Centro Sperimentale di Cinematografia è lo specchio del Paese, del valore che diamo al nostro patrimonio culturale e delle persone alle quali lo affidiamo.

Soltanto pensare di voler nascondere un incendio avvenuto in un luogo di proprietà dello Stato è un segnale più che indicativo di quello che, all’interno del Centro, si considera essere il cinema: un mezzo personale per sostenere la propria carriera.

Io mi posso permettere di dirlo ora, a bocce ferme, occupandomi di altro. Prova invece ad alzare un dito, soltanto un dito, quando sei lì, quando ci sei dentro. Vedi che luminoso avvenire.

“Maestro, posso portarle un caffè?” E intanto, tutto intorno, brucia.

parole: 310

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