Non per gioco, ma per errore

È faticoso capire se il suo corpo inganni la mente o viceversa. Se si imponga di avere dolori al ginocchio per ribellarsi al fisico, o se il corpo, portato all’estremo, aizzi la mente alla rabbia, come un toro ferito. Fatto rimane che guardare una partita di Novak Djokovic è un’esperienza penosa. Mi provoca un rigetto fisico, in cui il disprezzo che provo per le sue sceneggiate si mescola a una sensazione di fastidio, di disagio quasi. Come se l’ostentazione di tutto quel malessere mi risultasse oscena. A volte ho la sensazione che Djokovic sia approdato al tennis per errore. La guerra alla quale è scampato avrebbe saputo farne una macchina implacabile. Ed è quella la partita che a ogni scambio sembra giocarsi nel suo cranio affilato: una battaglia alla quale, sembrerebbe, neanche lui è sicuro di sopravvivere. Punto dopo punto. Non ho idea di come un gioco abbia scelto (ma è poi una scelta?) di annidarsi in quello strano involucro. Ma tant’è. Non la guerra, non il pugilato, non la follia. Il tennis è in Novak. E, per quanto spaventoso possa sembrare, è lì che, implacabile, prolifera.

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