Nella lingua di Goethe
Mi supera, vistosamente di fretta, un signore alto e ben vestito, rubandomi il posto al bancone. Lo lascio fare, ho qualche minuto. Brandisce venti euro verso Sigismondo, il barista. Gli dice, in tedesco: “Prendi, ho fretta.” Sigismondo, che stava preparando un caffè, lo guarda e gli risponde in tedesco, col suo accento marcatamente del Sud: “Buongiorno, io ho trascorso una felice Pasqua e tu?” È un espediente retorico semplice per noi italiani, a questo punto sorrideremmo e diremmo qualcosa come Hai ragione scusa, buongiorno. Ma il cliente tedesco sembra non avere familiarità con questa formula e, confuso, ribadisce: “Ho fretta ti dico, dai.” Sigismondo, sorridendo cortese: “E io no, buona giornata.” A quel punto guarda me e mi dice: “Espresso?” e io annuisco.
Il cliente tedesco adesso non sa più che pesci prendere e rimane lì, in piedi, come un fesso, con i suoi venti euro in mano. Ci pensa Sigismondo a chiarirgli la situazione, nella lingua di Goethe: “Io non so a casa tua, ma a casa mia si dice Buongiorno, Grazie e Prego. E questa è casa mia. Se me lo chiedi con gentilezza ti faccio pagare.” Ma il cliente tedesco non ha intenzione di ricevere lezioni di educazione questa mattina e risponde: “Te li porto domani.” Ma è un assist alla chiusura del terzo atto. Sigismondo: “No, non tornare. Il caffè te lo offro io. Buona giornata.” Il cliente tedesco, umiliato, si ricaccia i suoi venti euro in tasca e barcolla verso l’uscita.
Il sorriso tirato di Sigismondo si trasforma in una smorfia di stanchezza mentre mi serve il mio caffè. Tira un sospiro esagerato per spianare il terreno alla battuta che chiuderà la recita. “Che cacacazzi.” esclama scandendo sillabe, vocali e consonanti, questa volta nella lingua di Dante. Dalla vetrina un raggio di sole illumina il bancone. Cala il sipario. Buongiorno, Berlino.
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