In questo mondo di ladri

Ci hanno rubato la bici. Che non era soltanto una bici. Era una di quelle cargo, elettriche, per metterci dentro il nano, con il cassone di legno, una roba spaziale, costosissima. Era l’auto che non possediamo. L’avevo comprata per il nostro nuovo inizio a Berlino. Insomma - nel nostro parcheggio privato al chiuso: sparita, nemmeno un segno in terra.

Mercedes, Audi, due Porsche, tra le altre. Invece rubano la mia bici, che in due si solleva senza dover rompere il lucchetto. La bici con cui accompagnavo mio figlio in asilo la mattina, mettendo Ranieri e la Rettore a manetta dal cellulare. Per carità, assicurata, me la ridanno nuova. Per carità. Ma è da quando sono ragazzino che quando mi rubano la bici mi viene una tristezza fuori misura. Perché la bici è una cosa personale, diventa ogni mattino un prolungamento del tuo corpo. Non lo devo nemmeno spiegare: la bici è la bici. Ma questa in particolare, era la nostra bici. Ci sono rimasto malissimo. Non mi sono nemmeno arrabbiato, sono semplicemente stato pervaso da questo senso di resa. Incondizionata, assoluta.

Mi sono dunque armato di coraggio e sono andato al commissariato. E mentre andavo mi son detto: “Ci mancava dover parlare coi poliziotti tedeschi,” e chissà come mi tratteranno e chissà cosa mi diranno eccetera. Dunque arrivo, mi fanno accomodare (subito) e viene un ragazzo a prendere il verbale. Mi chiede se ho una foto del veicolo. Gliela mostro. “Era proprio una bella bici,” mi dice sinceramente dispiaciuto. “Sì,” gli dico io, un po’ stupito della sua franchezza. Lui scuote ancora una volta la testa e si mordicchia il labbro, “Davvero una bella bici.” E sente il verbale. Era così bella, la nostra bici, che ho intristito un poliziotto tedesco.

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