Il dipendente

Essere responsabile di un bambino è sempre una questione relativa. Il bambino dipende da me, è chiaro: dipende dal cibo che gli diamo, dagli abiti con i quali lo vestiamo, dall’educazione che gli offriamo, dal calore nel quale lo cresciamo. Dipende da noi, il bambino, per quanto riguarda sussistenza e affezione. La stessa sua esistenza dipende fisicamente da sua madre e me. Come si dice bene nel contesto  retributivo: ho un figlio “a carico”, un peso inerte, cioè che non contribuisce al bilancio familiare.

Dico che si tratta di una questione relativa, questa della responsabilità, perché più tempo passa e più mi rendo conto che il bambino certamente dipende da me, ma che ancora di più io dipendo dal bambino.

Avere un figlio ripone l’intera mia esistenza nelle sue manine ciniche e scriteriate. Senza che lui se ne renda minimamente conto, peraltro.

Dipendo dal suo umore. Dal suo sonno. Dal suo appetito. Da ogni suo desiderio. Dipendo dai suoi scatti d’ira e dall’aria nella sua pancia. Dipendo dalle sue aspettative. Dipendo dalle sue paure. Dipendo dai suoi capricci. Dipendo dai suoi baci e dai suoi sorrisi. Dipendo da ogni singolo aspetto di mio figlio: dal semplice suo respirare all’ultima delle sue scorregge.

Sarà anche un peso morto a mio carico come dice il legislatore, ma cosa sono io per lui? Non meno di un servo, non più di un idolatra - se con uno schiocco delle dita, questa minuscola creatura, è in grado di rendere la mia giornata una miseria o la più gioiosa delle feste.

Allora, alla luce di tutto questo mi domando: chi dipende da chi? Vado. Che piange.

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