Cattedrale Italia
Io questa finale di Coppa Davis so esattamente dove avrei voluto seguirla. Seduto ai tavoli di plastica di un circolo di provincia, con patatine di primo prezzo e un bicchiere di spuma. A bearmi dei commenti, ora comici ora tecnicissimi, di quattro vecchie canaglie dal sorriso sghembo. Ai muri, i gagliardetti di qualche locale torneo di bocce, alternati alle pubblicità d’epoca di Punt e Mes e Campari, mentre dal soffitto pendono le sciarpe della Serie A. Il televisore ha un tubo catodico grosso come un forno a microonde e sta abbastanza in alto da obbligarci tutti a un torcicollo che ci perseguiterà per giorni. Ogni nuovo avventore fa il suo ingresso con una battuta più rumorosa e sguaiata, lasciandosi dietro spesse impronte di terra rossa, alla vista delle quali la proprietaria affila gli occhi da dietro il bancone.
Non è un bar, è una cattedrale, e i devoti sanno che qui si prega in dialetto, a suon di moccoli e freddure. Potrei essere a Udine, a Lucca, a Perugia o Macerata: il format è lo stesso e si chiama Italia. Se ci cresci, in quel bar, sulle panche di quella cattedrale, poi la finale di Coppa Davis la puoi seguire anche da Berlino: quel sentimento non ti molla più. E non è poco.
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