Braveheart e la ripetizione
Ingannando il tempo, durante un ritardo di quasi tre ore sul treno per Colonia, il collega giovane mi fa: “Se dovessi scegliere una cosa soltanto per raccontare a tuo figlio il tempo in cui sei stato ragazzo, cosa sceglieresti?” È una domanda da stronzo, glielo faccio notare, dato che ho trentacinque anni e non ottanta. Ma dagli torto: trentacinque anni fa cadeva la Cortina di Ferro. Dunque mi spremo, anche se mi girano le palle, per la domanda e per il ritardo - in egual misura.
Cerco di pensare a una cosa che definisca in particolare la mia generazione e non quella che mi ha preceduto; escludo dunque le schede del telefono pubblico, ad esempio, ma anche stronzate dei primi anni 2000 come il Tamagotchi (glieli risparmio, a mio figlio, il Tamagotchi e il Festivalbar).
Gli confermo di essere davvero più vecchio di quello che in realtà sono, prendendomi un tempo infinito per riflettere, tormentandomi la fronte e spremendo gli occhi.
Quando sono stato felice, io, da ragazzo? Cosa mi rendeva contento?
Era un luogo davvero scontato allora, per noi, quanto la scuola e casa, gelido d’estate e caldo in inverno, scientificamente progettato per trattenerti al suo interno ore infinite. E sebbene sia sparito da un giorno con l’altro, senza far rumore, come un’apparizione frutto soltanto della nostra fantasia, Blockbuster ha rappresentato uno spazio meraviglioso che oggi, a descriverlo, sembra preistoria.
“Blockbuster,” gli dico. Per fortuna sa di cosa parlo. “Perché proprio Blockbuster?” Ma che ne so, collega giovane, che ne so. “Perché Braveheart lo riguardi venti volte in un anno, se c’è soltanto Blockbuster. Se hai Netflix e Amazon Prime, no.” E io davvero penso che sia stato fondamentale per me riguardare centinaia di volte lo stesso film con Mel Gibson. Non lo so perché, ma è così. Quel mondo finito, questo offriva: ripetizione. Ora tutto deve essere sempre nuovo: non si viaggia mai nello stesso posto che si ha visitato, per quanto possa esserci piaciuto. Ed é un peccato. Con Blockbuster se ne è andata la nostra ultima possibilità di ripeterci. All’infinito. Di esaurire ciò che sembra conosciuto, ma poi non lo è mai davvero.
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