Barricate di parole

Che poi la cosa che mi ha più colpito ieri sono stati i cartelli. In Italia non c’è una gran cultura dei cartelli in manifestazione. O meglio, ci sono sempre, ma sparuti, spesso eccentrici. Sono stati forse i Fridays For Future, proprio perché di origine svedese, a fare del cartello uno degli elementi distintivi della partecipazione agli eventi di protesta. I messaggi ieri invece erano spontanei, personali, raramente slogan preconfezionati, non furbi, non ammiccanti.

Non so se qualcuno si sia mai preso la briga di analizzare il fenomeno, ma è certamente un tema interessante. Quando qualcuno per primo nella storia ha deciso di scrivere un proprio pensiero su un cartello? Forse le suffragette?

Il contributo individuale a quella che un tempo si chiamava “dimostrazione” (che si “dava”, non ci si andava) mi pare essere stata la barricata sanculotta, in cui erano i cittadini - e degli strati più svantaggiati - a contribuire alla sua erezione con il (poco) mobilio posseduto, lanciato direttamente in strada.

Potremmo quindi dire che come durante la rivoluzione francese il dimostrante contribuiva con sedie e tavoli alla costruzione della barricata, così i cartelli oggi rappresentano barricate della parola, dove ognuno contribuisce con il proprio personale pensiero ad arginare l’invasore. Un contributo attivo, al di fuori dei cori che ognuno - ed è questo uno dei culmini del manifestare moderno - canta insieme ai compagni, all’unisono: il cartello per contro è dimostrazione individuale, è resistenza personale all’interno della salva.

Un bimbo aveva scritto: “Non voglio rinunciare a stare coi miei amici.” Faceva riferimento al piano della AfD di deportare in Africa i nuovi tedeschi. Cosa fa di più: questo messaggio o un muro di sedie?

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Una paura che non trema