A spese di tutti

Oggi, durante una conversazione privata, un collega ha definito il nostro lavoro come “frivolo”. È un termine che devo avere utilizzato anche io più di una volta per definire il mio mestiere. Un’occupazione, cioè, di alcuna serietà. O comunque qualcosa di simile. Sul momento mi sembra sempre la cosa giusta da fare: denigrarci in quanto perpetratori dei meccanismi e delle logiche di vendita contemporanee. Infondo c’è qualcosa di peggiore? (Sì.)

Poi però ci ragiono, perché lo dico ridendo, ma infondo mi spiace pensarmi in una luce tanto meschina. In un mondo in cui nessuno legge più un libro, in cui l’intrattenimento è standardizzato, l’informazione algoritmica, la politica insulsa, dove ripone la propria attenzione l’opinione pubblica? A quali messaggi si affida per le proprie scelte di vita?

Alla pubblicità.

Allora poi manco è tanto vero che il nostro è un lavoro scevro di serietà. Renderlo frivolo è una scelta. Quella, sì, riprovevole.

Che poi sembra che uno si voglia scagionare. Ma davvero è un mestiere bizzarro, il nostro. Come tutti i lavori, si può svolgere in diverse maniere. Soltanto che se il nostro lo si fa con leggerezza, allora si diventa complici; se lo si svolge con cura e con zelo, allora si può fare la differenza. Ma per davvero.

Chissà se poi è davvero così, o se soltanto mi piace pensarlo.

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