tra violenza e tranquillità

alla fine è successo. il tennis ha scelto; perché wimbledon è il tennis e ciò che qui si decide è in buona parte il ritratto dello sport intero. le tenniste e i tennisti russi e bielorussi non potranno dunque partecipare al torneo londinese, come recita il comunicato oggi promosso sul sito della competizione. tanti svolazzi british, ma alla fine il succo è quello. una scelta che davvero non dev’essere risultata semplice, riguardando in particolare il giocatore posizionato al secondo (daniil medvedev) e all’ottavo posto (andrey rublev) del ranking atp e la giocatrice bielorussa oggi sesta nella classifica wta (aryna sabalenka). già entrambi i circuiti avevano scelto ben presto dopo l’invasione dell’ucraina, di privare le giocatrici e i giocatrici russi delle rispettive bandiere sui propri siti. una decisione che avevo già commentato e che avevo trovato sconvolgente, non rappresentando nel tennis i giocatori la propria nazione (salvo in pochi tornei), ma soltanto se stessi - un gesto che oltretutto avevo trovato naïf e maldestro, puntando quasi alla negazione delle identità individuali, con risvolti financo pericolosi. meglio allora forse, come ha fatto wimbledon, non ammettere russi e bielorussi ai singoli tornei, con lo scopo implicito di negare ai due regimi la possibilità di sfruttare eventuali vittorie a vantaggio della propria propaganda. infondo i tornei sono eventi privati e la partecipazione o meno agli stessi è a discrezione degli organizzatori. certo è un dispiacere indicibile, per noi amanti di questo sport, dover assistere a uno dei quattro maggiori appuntamenti dell’anno, privato di alcuni dei suoi principali campioni. ma come si suol dire: c’est la guerre, e in guerra nulla è giusto, ma soprattutto in guerra gli sport possono avere un ruolo bizzarramente importante, in particolare quando nelle mani dei tiranni. è doppiamente ingiusto quando a pagarne le conseguenze sono appunto sportivi di una disciplina in cui non gareggiano sotto la bandiera della propria nazione (men che meno a wimbledon), laddove questa è già stata loro negata nella comunicazione ufficiale dell’intero circuito. dev’essere cosa bizzarra davvero, stasera, essere una giocatrice o un giocatore russo, menti di acciaio, abituate a rimanere inflessibili difronte a qualsiasi avvenimento, a qualsiasi imprevisto, a qualsiasi rumore, rimanere sempre concentrati, giocare partite di oltre tre ore un punto per volta, mai uno di più, dev’essere una sensazione orrenda, per questi scienziati in calzoncini e gonnella, veder sfumare il sogno davanti ai propri occhi. infondo stiamo parlando di ragazzi, tutti tra i 23, i 24 e i 26 anni, giovani che hanno imbracciato la racchetta quando ancora non sapevano scrivere dritto il proprio nome e che della vita hanno un’idea rigorosa, in tre set da sei game ciascuno. giovani che giocano divinamente a tennis e che solo per questa ragione oggi al posto della racchetta non imbracciano un fucile o, peggio, non si trovano in qualche pozzanghera delle periferie ucraine, a faccia in giù. 

sbaglia chi dice che si tratta “soltanto di uno sport”. non si tratta mai soltanto di uno sport. non a berlino nel 1936, non a città del messico nel 1969, non a monaco nel 1972, non ai quarti di finale del mondiale di calcio del 1986, non in sudafrica nel 1995, ma neanche nel recente 2019 quando i giocatori della nazionale turca fecero il saluto militare durante la partita contro la francia, o - per rimanere sul tennis - quando soltanto quest’anno djokovic è stato squalificato dall’open di australia per non essersi vaccinato contro il covid. 

non è mai “soltanto sport”. che cos’è allora? billie jean king una volta descrisse così il tennis: “è la perfetta combinazione di una azione violenta che si svolge in un clima di totale tranquillità”. e forse non ci sarebbe una descrizione più azzeccata per descrivere il tempo che stiamo vivendo. 

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