il fratello maggiore

ricordo che quando ero piccolo avevo questo amico. il mio amico aveva un fratello maggiore e tutta l’educazione in casa loro ruotava intorno al fatto che questo fratello maggiore dovesse addossarsi ogni responsabilità verso il mio amico. i genitori, l’una austera, l’altro severo, c’erano entrambi poco a casa e dunque al fratello maggiore veniva in qualche modo negato il suo status di bimbo, in favore di quello di “ometto di casa”. “mi raccomando” è la formula che più sentii in quegli anni tra le quattro pareti del loro bell’appartamento. fortunatamente il mio amico non era un bastardo, altrimenti avrebbe potuto combinarne di ogni e lasciare che tutte le colpe ricadessero automaticamente sul fratello maggiore. eravamo due bambini mediamente prudenti e mediamente coscienziosi e i nostri giochi erano misurati e riguardosi.

un giorno però la combinammo grossa (da qui il “mediamente”), non ricordo bene cosa facemmo, probabilmente una sciocchezza che nella nostra percezione e a fronte di tutti quei “mi raccomando” ci doveva sembrare un attacco alle democrazie liberali; forse durante gli esperimenti con la cocacola e le mentos ridipingemmo parte del soggiorno. qualcosa del genere.

il fratello del mio amico, in tutto questo, manco era a casa - non ricordo bene, in qualche modo però avrebbe dovuto esserlo - ma il mio amico, preso da un crescente panico, aveva già deciso che l’unica soluzione fosse addossare ogni colpa sul fratello, risoluzione alla quale mi opposi, garantendo che non mi sarei macchiato di un crimine simile. epperò compresi allora il reale terrore che il mio amico aveva dei genitori, o meglio: quanto lo terrorizzasse deludere i genitori, rischiare di venire spogliato di quell’innocenza della quale il ruolo del fratello gli aveva fatto scudo - la sua determinazione nel difendere il proprio onore di “bambino modello” lo avrebbe spinto perfino a condannare l’incolpevole fratello. io, che sono figlio unico, ero invece rassegnato a beccarmi i cazziatoni, in quanto se facevo una frittata non c’era manco un cane a cui dare la colpa; per questo la scelta di deresponsabilizzarsi scaricando il barile sul fratello mi pareva un gesto fuori modo vigliacco e cattivo.

ma tant’è, il mio amico mi fece presente che non erano fatti miei e che la faccenda era di famiglia. e bene. perché per quanto fossi contrario, c’è soltanto un’altra cosa peggiore che deludere i propri genitori a quell’età ed è deludere i genitori degli amici, agli occhi dei quali tanto avevo lavorato per rendermi una pietra preziosa e metro di paragone quotidiano per l’educazione del proprio figlio: “vedi quanto è bravo giulio”, “e composto giulio”, “e gentile giulio”, complimenti difronte ai quali mi mostravo imbarazzato, ma dei quali ero oltremodo lusingato. avere contribuito all’imbrattamento del loro soggiorno avrebbe certamente rovinato quell’aura di perfezione nella quale ero stato lungamente ammantato.

dunque lasciai che il fratello del mio amico infine venisse punito per i nostri misfatti.

oggi so che non c’è una vera morale a questa storia, se non che i bambini sanno essere veramente infami. so però che ogni tanto mi ritorna su quella sensazione di sporco, di amarezza, di ingiustizia, della quale mi resi complice con il mio silenzio.

qualche anno fa rincontrai il fratello maggiore a una mostra di fotografia. era conciato male, parlava male, aveva una faccia da tonto e gli occhi di chi si fa un mare di canne. la notte, prima di addormentarmi, pensai che in qualche modo era anche colpa mia. che forse avevo contribuito a rovinare un ragazzo brillante. o forse era sempre stato un tonto, questo non lo saprei giudicare. il che non mi scagionerebbe delle mie colpe, ma almeno non ho sulla coscienza un mancato premio nobel.

parole: 606

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