Fun-free

Non credo ci sia da andare indietro nel tempo alla ricerca di traumi: sono sempre stato una persona che non si sa divertire. Fondamentalmente triste, si potrebbe dire. Me ne ricordo ogni qual volta mi trovi ad una festa (che, di base, evito). Immancabilmente mi abbrutisco, trascorrendo le poche ore che mi forzo a trascorrervi, in una nicchia confortevole, in attesa che si raggiunga un orario ragionevole per fare un’uscita dignitosa. E più vedo gli altri divertirsi, più mi assale la malinconia. Per questo cerco di bere il più possibile, con l’intento di mescolarmi all’arredo, sperando che nessuno si interessi a me. Il ritorno poi è la parte peggiore: conscio del mio fallimento, rimugino su come debba essere apparsa la mia triste figura, altrimenti così solare, ora rannicchiata in un angolo buio, col suo bicchiere in mano.

Non si può insegnare a qualcuno a divertirsi. Negli anni ho avuto amici che ci hanno provato, invano. Sono convinto che andrebbe ripensato il formato della festa tout court (specialmente quella aziendale): a ben pensarci si tratta di un’imposizione bella e buona, che non prende in considerazione gli stati d’animo individuali. Le feste dovrebbero offrire la possibilità di usufruire di spazi fun-free, dove dare la possibilità agli elementi più mesti della compagine di ricavarsi una nicchia di comfort, in cui cioè scambiarsi vicendevolmente le proprie mestizie.

Non riesco a divertirmi non per un rifiuto della gioia mia - come altrui - bensì per il fatto di essere forzato a farlo.

“Carino ieri sera, no? Dove sei sparito, a un certo punto?” La solita solfa: prima un giudizio, poi l’inquisizione. “Io? Tu piuttosto! Io ero in pista a DIVERTIRMI.” Ne ho di risposte collaudate negli anni. Ma temo non ci caschi mai nessuno.

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