Fenomenologia di Pablo Trincia
Ha una narrazione tutta retorica, con la voce bassa e soffiata, la modulazione radiofonica. Costruzione della metafora da Bacio Perugina (“un fiocco di neve non fa rumore”), i suoi racconti alternano la drammaticità dell’inchiesta giornalistica al romanzetto di Fabio Volo. Eppure.
Eppure Pablo Trincia funziona. Al terzo minuto (di qualsiasi suo prodotto) già devo trattenere le lacrime. Anche se mi verrebbe voglia di andare a cercarlo e prenderlo a pugni. Io Pablo Trincia lo detesto. Però è bravissimo. Ma lo detesto.
Non lo so cosa faccia, Pablo Trincia, con la scrittura, però riesce a mantenersi tra superficie e profondità, come una megattera, pronta a dar fiato alle trombe in qualsiasi momento, pachidermica e astutissima. Elegante e ingombrante.
Pablo Trincia (questo nome poi!) parla tutte le lingue, si adatta in qualsiasi situazione, conosce tutti, tutti gli vogliono bene. Pablo Trincia sembra entrare sotto pelle a ogni intervistato, con quel suo modo messianico e untuoso.
Ha gli ingranaggi tutti ben oliati, Pablo Trincia, come detto: funziona. Ma ci vorrebbe un approfondimento, per capire cosa abbiano in comune lui e Fabio Volo (tra pochi altri), nel loro rapporto privilegiato con l’italianità. Non con gli italiani - proprio con l’italianità. Che entrambi riescono a interpretare in maniera orizzontale, felice, perfetta.
Hanno qualcosa in comune. Tra di loro e con tutti noi, intendo. Se non allo specchio, allora in una proiezione, di Italia bella e maledetta, tra meraviglia e ingiustizia. Retorica, appunto. Quella in cui a tutti noi piace riconoscerci.
È uscito “E poi il silenzio”, sulla tragedia dell’Hotel Rigopiano. E, come di consueto, va ascoltata. Nonostante quel titolo, eccetera. Perché? Non ne ho idea. Perché sì. Perché quella roba lì, a Pablo Trincia, riesce benissimo. E tanto basta.
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