A che prezzo
La confezione ha innanzitutto uno scopo protettivo. In secondo luogo, ne può avere uno conservativo. In terzo, uno illustrativo. Le confezioni tardo ottocentesche, ad esempio, sono state le prime ad avere uno scopo decorativo: non mostravano ancora una riproduzione del prodotto ma, tra mille fronzoli, raccontavano doti e qualità del produttore. Soltanto nella seconda metà del Novecento si è sviluppata una concezione del packaging come la conosciamo oggi, ovvero di involucro narrativo.
Infine, soltanto in tempi recenti, ci si è sforzati di dare nuova linfa a quell’involucro, studiandone composizione e disegno per sfruttarne usi inesplorati. Penso per esempio a Rummo, che sulle sue confezioni di pasta aveva realizzato tre cerchi concentrici, in corrispondenza dei quali si poteva misurare - ponendo gli spaghetti a mazzo e in verticale - delle porzioni da 100, 200 e 400 grammi. Soluzioni semplici e geniali per dare, appunto, alla confezione nuovo scopo, oltre ai tre elencati in principio.
Nessuno tuttavia si era arrischiato dove ha osato Penny, cioè a rendere il packaging un esclusivo veicolo per la comunicazione del prezzo. Sui nuovi involucri non viene mostrato il prodotto: viene indicato in piccolo, per iscritto, a margine della composizione grafica. Anche il logo di marca si sacrifica, costringendosi in isolamento, come potrebbe accadere soltanto per un codice a barre. Cosa rimane? Il prezzo, appunto, che occupa per lungo l’intero packaging. Unico elemento di comunicazione, riesce senza ombra di dubbio a garantire una riconoscibilità senza pari sullo scaffale, ma si tratta di una scelta che non può lasciare indifferenti.
Difficilmente una confezione avrebbe potuto con tanta efficacia incarnare l’essenza del nostro tempo: se già veniva recriminato al presente di dare peso eccessivo all’esteriorità rispetto alla sostanza, allora che dire se l’involucro non promuove manco più il contenuto, ma esclusivamente il suo prezzo?
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