le conseguenze della vanità
ieri ho letto — insieme a troppo pochi, temo — la mirabolante vicenda di roberto recordare. chi? esatto. tre passaporti (italiano, maltese, tagiko, per un soffio un quarto da diplomatico ivoriano), recordare fino a ieri era un imprenditore di palmi (reggio calabria). oggi è emerso essere invece un banchiere per cosa nostra, ndrangheta e camorra. nientepopodimeno. ma sono le cifre che muoveva, questo peculiare giramondo, ad avermi sconvolto. pare che per il suo giro d’affari malavitoso muovesse fino a 500 miliardi di euro. lo scrivo per esteso: cinquecento-miliardi-di-euro. neanche così rende l’idea. “a un controllo ho gettato in un un cestino un bond da 100 miliardi,” ha dichiarato.
cerco di dare una misura per comprendere meglio di che cifre stiamo parlando: gli aiuti del recovery fund destinati all’italia, per salvare l’economia nazionale dal disastro causato dalla pandemia, ammontano a 173 miliardi di euro, dei quali 81,4 come trasferimenti diretti di bilancio e 127 come prestiti. il signor recordare ne ha letteralmente cestinati 100 all’aeroporto di fiumicino con la stessa nonchalance con cui i pischelli gettano l’erba per non farsi beccare dai finanzieri.
armi, stupefacenti, estorsioni, usura. tempo, in rapporto, dedicato al telegiornale rispetto alla morte di maradona (avvenuta ormai due giorni fa): 10-90. ma la cosa più incredibile di tutte (come se i numeri non bastassero) è che il resoconto più dettagliato sulla vicenda da chi lo riceviamo? dal corriere di calabria.
quanti recordare servono a saldare il debito pubblico italiano? 5,166, precisamente. cinque di questi fenomenali imprenditori del mezzogiorno per portare l’italia a un punto dove l’italia non è stata mai — non è meraviglioso? anche oggi sono riuscito a stupirmi. ma all’estero come fanno? non si annoiano?
nell’arco delle 24, poi, ho approfondito le mie ricerche e mi sono addentrato — fin dove mi è concesso — nel magico mondo di recordare, sforzandomi di abbandonare spirito critico e ironia. e ho capito che (come sempre) c’era dell’altro.
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“titta di girolamo è un uomo di mezz'età che da otto anni vive in un lussuoso albergo di lugano; soffre d'insonnia, è separato da ormai dieci anni ed ha tre figli a cui spesso telefona, ma che non gli vogliono parlare.
da ventiquattro anni, ogni mercoledì mattina, si inietta una dose di eroina, mentre una volta all'anno si sottopone ad una costosa procedura di lavaggio del sangue.
nessuno sa cosa faccia di lavoro, ma in realtà una o due volte a settimana trasporta per conto di cosa nostra una valigia piena di denaro, che provvede a depositare a suo nome in una banca del paese. titta un tempo era un facoltoso commercialist che faceva da broker finanziario e per questo fu avvicinato dalla mafia: quando però perse in un solo giorno più di duecento miliardi di lire che la mafia gli aveva chiesto di investire, fu costretto a saldare tale debito vivendo così, in una sorta d'esilio forzato.” [1]
c’è una cruciale discrepanza tra titta, il protagonista di “le conseguenze dell’amore”, e roberto recordare: l’identità. o meglio: l’approccio all’identità.
il personaggio scritto da sorrentino si presenta così sin da subito: “io non sono un uomo frivolo, l'unica cosa frivola che possiedo è il mio nome: titta di girolamo.” e così infatti si comporta per (quasi) tutto il film, cioè come una persona estremamente riservata, impassibile, cinica, metodica, abitudinaria, fredda. si tratta chiaramente di un espediente narrativo capace però di fare agilmente breccia nell’immaginario dello spettatore: la riservatezza, la solitudine, l’anonimato perfino, sono condizioni imprescindibili di un faccendiere della mafia. il film è del 2004 e ivi ambientato, quindi un periodo pre-social in cui il termine “google-proof” ancora non aveva significato. prima dell’avvento dell’identità digitale, scomparire sembrava ancora un’attività plausibile; cambi passaporto, una foto nuova col parrucchino, un paio di forbici, colla, e il sud america è dietro l’angolo. il cinema è pregno di scene come questa. oggi basta essere in possesso di uno smartphone per essere rintracciabile.
e questo è titta. questa è fiction.
poi c’è roberto recordare. imprenditore informatico e proprietario di una squadra di pallavolo a palmi. come vediamo questo profilo è già immensamente più esposto del buon titta. ma c’è di più: c’è un badge. incredibilmente se si cerca roberto recordare su linkedin (lo ricordiamo: stiamo parlando di un faccendiere che lavava per conto di cosa nostra, ndrangheta e camorra cifre fino a 500 miliardi di euro) compare il suo profilo. ma ciò che ancora di più colpisce, è quella piccola medaglietta dorata che accompagna il suo nome, attraverso la quale recordare ha scelto di mostrare di essere in possesso di un account premium. non ha caricato una foto profilo, recordare, nemmeno una di copertina, tuttavia non ha mancato di compilare le sue informazioni personali con dovizia di particolari (di certo facilitando non poco il lavoro ai paradise papers, che su di lui indagavano da anni): direttore, presidente, direttore, presidente, srl, ltd, srl, ltd. ha ceduto, recordare, alla propria vanità, concedendosi di esporre su un social network nomi, date, sedi, della propria “carriera” (possiamo definirla così?) attraverso gli anni.
eccola, la meraviglia della parabola di roberto recordare, che è a suo modo anche la parabola di titta di girolamo: l’umanità — in tutta la sua fragilità e fallibilità. se titta, dopo anni di scrupoloso anonimato, scopriva fatalmente il fianco all’amore, recordare lo ha scoperto alla più classica e distintiva condizione del nostro tempo: la vanità. perché a cosa serve possedere l’abilità di muovere mi-liar-di di euro, se poi non puoi nemmeno permetterti di pavoneggiare il tuo estro su un social network come-fanno-tutti?
potevamo immaginare che recordare avesse dunque scelto di proteggere quantomeno la propria immagine, negando al web il riconoscimento del proprio aspetto. ma no, anche su questo punto il buon roberto ha dovuto cedere (ritenendosi evidentemente un bell’uomo — non sono in grado di giudicare) e ha aperto un canale youtube a suo nome (13 video caricati, 7 iscritti; date le disponibilità stupisce che non abbia scelto di sponsorizzare i suoi contenuti) su cui ha caricato esclusivamente riprese amatoriali di sagre di paese, musiche e balli dalla sua amata calabria. incredibile. il suo profilo su youtube è corredato anche da una foto, che lo ritrae intabarrato in un bianco turbante con alle spalle le dune del deserto. ancora scopre il fianco, roberto, con ingenuità, cadendo nella trappola ben collaudata dell’ego, tesagli dalla silicon valley.
su facebook, invece, recordare è stato più cauto, andando ad occultare tutte le proprie informazioni personali, come le immagini, ad occhi indiscreti al di fuori del suo network. solo due pubblicazioni gli sono sfuggite. si tratta di due ricondivisioni: una del 2018 di un video-accusa contro nicola gratteri, magistrato e procuratore della repubblica di catanzaro; l’altra, un repost dal profilo di matteo salvini nel 2019 — un’invettiva contro conte e contro il mes. entrambe prive di commento o caption. anche nella sezione “mi piace” gli sono sfuggiti un paio di riferimenti: un apprezzamento alla pagina di tal giuseppe gelardi (candidato alle elezioni regionali nella schiera udc), ma anche — ed eccoci nuovamente alla grande bellezza — un bel mi piace alla pagina facebook del programma di rai3 “sono innocente”, una docu-fiction che racconta storie di innocenti finiti in carcere ingiustamente. applausi. “persino da un banco d'imputato è sempre interessante sentir parlare di sé” scriveva camus ne lo straniero. e forse mai concetto fu più calzante.
il punto che trovo davvero interessante della vicenda recordare, è proprio il cambiamento che anche queste mistiche figure di malaffare hanno dovuto subire rispetto a quelle della generazione che le hanno precedute, trasformandosi spesso — insieme al sistema malavitoso che rappresentano — in bizzarre figure mitologiche, metà boomer vanesi, metà spietati criminali capaci dell’umanamente inconcepibile. un cortocircuito dovuto all’improvvisa necessità — figlia del tempo che viviamo — di doversi sdoppiare in identità molteplici: quella reale (il mafioso) e quella digitale (l’imprenditore legato alla sua terra).
mi ritorna in mente una frase pronunciata da tristan harris — ex designer a google, poi rinsavito e diventato co-fondatore del center for humane technology — che nel documentario di netflix the social dilemma ha detto: “viviamo dentro un hardware, un cervello, che ha milioni di anni e poi c'è questo schermo, e dalla parte opposta ci sono migliaia di ingegneri e supercomputer che hanno obiettivi diversi dai tuoi. quindi, chi vince a questo gioco? chi vince?”
per provare a rispondere alla domanda di harris, dobbiamo tornare a titta di girolamo e all’appunto che prende su un tovagliolo di carta, parafrasandolo: “progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze della vanità.”