gessate

“la maturità è un'amara delusione per la quale non esiste rimedio, a meno che non si dica che la risata è un rimedio per ogni cosa.”

— kurt vonnegut

il 22 dicembre andavamo a gessate, capolinea della verde a nord-est di milano. a rivedere certe fotografie e certi video che giravamo durante quelle rapide incursioni nell’hinterland, c’è di che angosciarsi; non solo per il nostro aspetto, figlio della più spietata adolescenza, né per ciò che effettivamente andavamo a fare in mezzo al fango nei campi, ma per la spudorata idiozia che investivamo in ogni parola che veniva detta, nel modo in cui veniva detta, per l’energia fuori misura che impiegavamo nelle nostre scemenze. 

a distanza di oltre dieci anni da quei pomeriggi che anticipavano il natale questa è la prima volta che provo a raccontare cosa accadeva il 22 dicembre di ogni anno, tra il 2005 e il 2008, nella campagna di gessate. ci avevo già provato altre volte, ma ad ogni tentativo mi sono bloccato nello scoprire quanto effettivamente si possa essere idioti a quell’età e la vergogna - che pure è accompagnata da un certo orgoglio e, in qualche maniera, da una forma di stima - mi ha impedito di proseguire. non so perché quest’anno sia diverso (di fatto è stato un anno diverso da ogni altro), ma ci proverò, perché quei pomeriggi rappresentano sicuramente il periodo più felice, complesso, spensierato, sofferto ed entusiasmante della mia vita. 

si potrebbe semplicemente dire che nei giorni antecedenti il 22, in quest’ordine, rubavamo il registro di classe; saccheggiavamo ogni tabaccaio di milano di razzi e petardi; incoronavamo quello che avevamo battezzato il “neminchio dell’anno” (crasi meravigliosa tra nemico e minchia) e realizzavamo un osceno manichino di carta e di pezza che lo parodiasse. poi, il 22 dicembre, suonata la campanella che ci congedava - con un certo sollievo - all’anno seguente, le tasche piene di petardi, bottigliette colme di alcol puro, il registro nello zaino (forse questo rappresentava nella nostra mente bacata l’apice del pericolo e non, invece, aggirarsi per il centro di milano carichi di alcol e polvere da sparo) e imboccavamo le gradinate della metropolitana. dai vetri del vagone sperimentavamo quel magico momento in cui (dopo la stazione udine, mi pare) il treno sale in superficie e lentamente, fermata dopo fermata, si svuota, i volti dei viaggiatori cambiano, lasciandosi alle spalle gli abiti blasonati dei tronfi businessman e abbracciando invece i pendolari con le pesanti borse a tracolla e le scarpe da jogging. guardavamo sfilare intorno a noi la città che conoscevamo durante tutto l’anno ed entravamo in un territorio bucolico che istantaneamente sapeva di vacanza e campeggio e libertà. 

un’ora più tardi scendevamo a gessate e anche l’aria era diversa, frizzante, leggera, viva. da qui in poi era come liberare dei lupi famelici in un pollaio. schiamazzavamo una scemenza via l’altra, strillavamo versi dementi, ci strizzavamo le palle, coppini, sberleffi, rincorse, mentre evitavamo con cura il centro abitato gessatese e ci addentravamo nei campi circostanti, lungo le sottili lingue di fango ghiacciato che costeggiano il maggese a riposo. qui crocifiggevamo - o impalavamo, in base a come era stato realizzato - il manichino del neminchio (generalmente un professore, il preside, il vice-preside) con una croce di legno, realizzata sul posto, che veniva poi conficcata bene nel terreno. fatto ciò, veniva appoggiato alla base del legno il registro indebitamente sottratto e impregnato di alcol.

ora tutto era pronto per il grande rito; in questo contesto, chiaramente sempre condito di illogici schiamazzi, veniva dato fuoco al registro e le fiamme lentamente si propagavano al manichino che in un batter d’occhio cominciava ad annerirsi prima e a consumarsi poi, riflettendo il bagliore delle concitate lingue di fuoco nei nostri sguardi festanti. e poi petardi e razzi e scoppi a non finire: centinaia di botti in serrata successione scuotevano il silenzio della provincia, accompagnati dai nostri deliri adolescenziali.

si potrebbe semplicemente dire questo, certo. si potrebbe dire anche - e non ve ne vorrà nessuno per averlo pensato - che fossimo giovani profondamente turbati. certo, sarebbe legittimo (in tal caso forse dovrei puntualizzare che il pomeriggio di gessate spesso si dimostrava blando rispetto a ben altre iniziative che mettevamo in scena durante il resto dell’anno). eppure mi piace pensare che ci sia dell’altro. 

”a volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane”, scriveva calvino. se richiudo gli occhi, allo scadere di questo anno che ci ha tenuti distanti - per la prima volta da quando ci conosciamo - e ripenso a quei pomeriggi, sento che il sangue comincia a corrermi più rapido nelle vene e percepisco la vita di allora, ancora, cercare rifugio nel cuore. perché l’imbecillità era il nostro rifugio, il nostro riparo dalle insicurezze, ma si trattava di una costruzione retta su sette pilastri, né uno di più né uno di meno - tanti eravamo - e quegli sfoghi apparentemente insensati noi li vivevamo con bulimica voracità; una vita, quella, che ci forniva tante risposte - semper maldestre - alle domande che ci ponevamo, che erano tante, e che non ci lasciava mai sazi; eppure la risposta era una, sempre la stessa: finché saremo stupidi, insieme, saremo salvi. ed eccoci, dunque, a sapere l’uno dell’altro senza bisogno di domandare, perché fin quando una giornata non trascorrerà priva di un rutto, di una scorreggia, di una risata immotivata, di un verso senza senso, senza di una battuta che nessuno - per quanto si sforzi - riesce a capire, ci saremo salvati, ancora una volta, dalla mediocrità di un mondo che si prende troppo sul serio. e la scemenza sarà il nostro riparo. e l’amicizia il nostro scudo contro un futuro incerto. 

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